”E’ nei luoghi che l’esperienza umana si forma, si accumula e viene condivisa, e il suo senso viene elaborato, assimilato e negoziato. Ed è nei luoghi, e grazie ai luoghi che i desideri si sviluppano e prendono forma, alimentati dalla speranza di realizzarsi,rischiano la delusione e – a dire il vero – il più delle volte vengono delusi.”
Zygmunt Bauman
Luoghi. Raccontati, vissuti, ricordati. Istanti di tempo che raccontano storie. In una società in cui il senso più pregnante viene proposto dall’immagine, anche la memoria deve adeguare i propri canoni di riferimento. Bruno Cattani propone una serie di opere in cui la fotografia si pone come fenomeno evocativo d’eternità. Attraverso la peculiare capacità del medium fotografico, l’autore cattura frammenti della realtà traducendone in modo personale l’idea di rappresentazione mnemonica. Questi sintagmi della concretezza sono uno spunto per proporre una manifestazione narrativa che si allontana dal particolare e vuole annunciarsi come universale. Proprio tale dinamica, insita nella percezione dei luoghi, veicolata in modo estatico, potenzia la portata semantica della narrazione. Gli spazi abitati diventano un magma di peculiarità, sempre guidati da uno svolgimento interno difficilmente circoscrivibile. La capacità suggestiva delle diverse opere, unita alla singolarità della ricerca fotografica, sedimenta un percorso nell’attualità che si scinde in molteplici rivoli di senso.Una serie, quella delle “Memorie”, realizzata lungo un arco di tempo durato cinque lunghi anni. Un lavoro sofferto, iniziato da una commissione e sviluppatosi in seguito come un vero e proprio work in progress ancora aperto e legato ad una interpretazione che non è più soltanto personale ma è diventata oramai collettiva. Un lavoro a ritroso che scava nel non detto per cercare quelle immagini mai rimosse, attraverso flash che compaiono come una visione improvvisa e colpiscono al momento, evocazioni di un passato trascorso. Situazioni che divengono universali poiché appartengono all'immaginario di tutti, dettagli che non sono stati scelti ma sono apparsi loro stessi come scelta, che non sono stati trovati ma si sono lasciati semplicemente trovare, al cui richiamo il fotografo ha risposto. Piccoli particolari che si sono mostrati alla luce della sua sensibilità, con l'urgenza di essere raccontati. Possono essere strade deserte o popolate soltanto da una panchina solitaria o da un bambino che gioca in mezzo alle foglie o ancora tira un aquilone, altalene e giochi d'infanzia nella neve che si mischiano a nebbie padane e brandelli di muro oppure ex fabbriche abbandonate catturate da un occhio attento e calibrato. Vecchie foto ingiallite dal tempo, giocattoli di legno colorato, stanze dedicate alla pazzìa che conservano oggetti dimenticati e tracce evidenti di chi le ha abitate e che ricostruiscono attraverso la minuzia piccoli ma mai insignificanti pezzi di storie private. Bruno Cattani con uno sguardo attento e sapiente ferma il passaggio impietoso dei ricordi fissandolo con una cornice nera, quasi una finestra immaginaria, e lasciando una patina nebulosa sulla superficie per creare un effetto anticato che ci riporta alla dimensione onirica. Cogliendo sapientemente l'atmosfera di un luogo e di un oggetto, cataloga come in un elenco del sogno cose, paesaggi, inquietudini e solitudini, senza lasciare nulla al caso e senza alcun giudizio di sorta. Un sottile fil rouge collega questo nuovo lavoro a quelli precedenti, realizzati con l'intento di collegare il corpo alla cultura e all'arte, ma le persone ora passano in secondo piano. Non sono difatti le figure umane ad essere protagoniste - visibili soltanto di taglio oppure apparendo quasi per caso e senza disturbare - ma le tracce che lasciano nel loro passaggio, talvolta labili e appena visibili altre volte marchiate a fuoco nel terreno calpestato.Bruno cattani scrive il suo personale viaggio nei ricordi, seguendo col pensiero quanto afferma Wim Wenders a proposito delle sue fotografie scattate in angoli di città nel volume “Immagini del Pianeta Terra” edito da Contrasto: “alcuni dei luoghi che ho fotografato stanno per scomparire, forse sono già scomparsi dalla faccia della Terra. Il loro ricordo dovrà aggrapparsi alle immagini che abbiamo di essi.”Roland Barthes, nel celebre testo La camera chiara edito nel 1980, sottolineava la dimensione dell’ascolto dei luoghi. In quell’opera, il saggista francese sottolineava l’inscindibilità della fotografia dal suo referente, il suo essere necessariamente legata all’attimo congelato nella posa fotografica, nel momento in cui il “documento” fotografico tende a testimoniare l’assenza di qualcosa, piuttosto che la sua presenza.La macchina fotografica può dunque trasformarsi in un mezzo d’ascolto di quei luoghi che nell'opera di Bruno Cattani si trasformano in veri e propri topoi di un presente-assente. Non è difficile trovare le radici e la stessa suggestione della valle padana e delle sue brume nel conterraneo Luigi Ghirri quando oppone all’idea della “sparizione” della realtà concreta quella della “apparizione”. Quando mette in primo piano una dimensione simbolica in cui l’autore deve potersi ancora stupire di fronte agli spazi che incontra, meravigliandosi ogni volta, scoprendo il fremito di un attimo, fermando l'attimo, o la minima variazione. O tangenze con Mimmo Jodice che non ha mai smesso di meravigliarsi di fronte ad armonie inattese, in particolar modo quando si perde a guardare tra i vicoli nascosti di Napoli affermando “ Vorrei citare Fernando Pessoa: ma cosa stavo pensando prima di perdermi a guardare? Questa frase sembra scritta per me e descrive bene il mio atteggiamento ricorrente: perdermi a guardare, immaginare, inseguire visioni fuori dalla realtà”.Sebbene negli scatti di Bruno Cattani non ci sia il bisogno d' inseguire nulla poichè la realtà è già metaforicamente davanti ai nostri occhi e i resti di ciò che rimane delle nostre visioni divengono pura e semplice poesia.
«Andavo a Pasqua, nei giardini pubblici della mia Reggio Emilia, e subito diventavo un piccolo cavaliere, in groppa al destriero…oppure un super pilota, lanciato ai comandi di un’improbabile bolide: sperando che qui minuti sempre troppo brevi non terminassero mai. Con un senso di magia che oggi vedo riflesso negli occhi dei miei figli, incantati tra suoni e colori...» Bruno Cattani, classe 1964 e fotografo dal 1982, ricorda così un imprinting con quei soggetti che col tempo sono diventati un filone del suo lavoro (che tra le altre cose lo ha portato a ricerche per conto di grandi Musei come il Louvre parigino, il Pergamon di Berlino, l’Istituto Centrale per la Grafica a Roma). Sul suo sito web (brunocattani.it) se ne trova un’intera sezione, denominata «Carousel». Un grande progetto, inaugurato nel 2017 come mostra presso la galleria fotografica VisionQuest di Genova; ma che in realtà affonda le radici in quelle memorie, tra parchi giochi d’infanzia.«C’è sempre una prima volta dove scatta il fulmine, e dove scatti la prima foto: per me la prima è stata a Parigi, uscendo dal Museo di storia naturale, mi sono imbattuto in quel fiabesco carosello a tema, una meraviglia di animali… Da lì mi sono immerso in un mondo parallelo, e circolare. Strutture itineranti, i carousel si possono trovare ovunque nel mondo, ed è questa la loro magia: sono come portali rotanti, che trasportano i loro passeggeri in altri tempi e altri luoghi». Se Parigi è la capitale di queste attrazioni (menzione speciale per la giostra del Parc Monceau che sembra il Nautilus di Jules Verne), che si trovino a Rimini o Miami nelle immagini di Cattani vengono trattati analogamente: i colori delle giostre si fanno più nitidi e vibranti; mentre lo spazio intorno, volutamente sovraesposto,si fa stilizzato, quasi indistinto. «Cerco così di restituire tutto quello che per me rappresentano i Carousel: il trasporto del desiderio, la gioia del gioco, l’estraniamento dalla realtà, l’eterno movimento della vita e la rassicurante, trasognata bellezza che sanno regalare a qualsiasi contesto urbano. Io stesso, come fotografo, giro sempre intorno a un’idea di memoria; ecco, queste giostre ne sono l’apoteosi. In ognuno di essi c’è la storia di un bambino che fa un’esperienza destinata a smuovere qualcosa dentro di lui». O di un adulto che torna bambino, sognando, di giro in giro.
L’ultima fatica di Bruno Cattani è un piccolo libro fotografico estremamente raffinato, rilegato in velluto rosso e con il titolo di lettere d’oro: EROS.
Titolo accattivante, in grado di calamitare l’attenzione popolare eche farebbe presagire un contenuto interamente dedicato al corpo vivo e alla sua sensualità.
Invece no, sono corpi modellati, è scultura, gessi in collezioni pubbliche che l’occhio di Cattani rende vivi e sensuali.
È un progetto nato anni orsono, del quale mi sento complice poiché Bruno Cattani mi raccontò la sua idea chiedendomi di poter fotografare i gessi del Cassero per la Scultura di Montevarchi, e di aiutarlo ad avere i contatti per andare a fotografare in altre importanti gipsoteche, come quelle di Leonardo Bistolfi e Antonio Canova.
Il risultato è straordinario e spiazzante, immagini frammentarie di corpi, distillati dalla creatività del fotografo e dal genio dell’arte plastica, bellezze sublimi che raramente si incontrano in natura, dense di desideri dichiarati o suggeriti.
L’occhio di Cattani indaga le forme, cogliendo quell’eros che sfugge ai più e che a tratti diviene desiderio di vita. Novella vittima di “agalmatofilia” cioè “amore per una statua”, così come narrato da Ovidio nelle Metamorfosi, Cattani con i suoi scatti rinnova l’antico e suadente mito di Pigmalione.
E anche se l’occhio esperto riuscirà, forse, a riconosce le opere e gli autori delle sculture, certamente non riuscirà, se non con grande difficoltà, a svincolarsi dal magnetismo della profonda sensualità, a tratti torbida e crepuscolare, delle immagini stampate.
Il coltissimo “Effetto Pigmalione” che scaturisce dalla visione di questo lavoro - quasi un omaggio al saggio di Victor Stoichita -tratteggia il suo autore come un demiurgo quasi mitico, che rimanda alle parole di Paolina nell’atto V de “Il racconto d’inverno” di William Shakespeare:
“Se voi potete reggere a tanto,
io farò che la statua si muova davvero,
discenda e vi prenda per mano:
ma dopo voi crederete ch’io disponga di poteri magici.”.
Alfonso Panzetta
Giugno 2018
“La sua opera non è mai la copia di un oggetto, né la proiezione di un'immagine interiore; è un oggetto di più, subito situato tra il mondo e l'artista: un documento visibile del loro colloquio, quasi un'arcata di più di un ponte gettato tra queste due cose, il mondo e l'artista”.
Luigi Carluccio, La faccia nascosta della luna, Scritti scelti, 1967
La serie Eros di Bruno Cattani invita a riconsiderare con occhi e percezione nuovi, temi quali il desiderio e il pathos, intesi come quel sentimento capace di suscitare un'intensa emozione e una totale partecipazione sul piano estetico ed emotivo.
L'arte scultorea, ripresa in alcune delle sue più alte rappresentazioni, diviene il pretesto per restituire un'inedita interpretazione dell'intenso rapporto tra bellezza ed erotismo, matericità ed astrazione, vero e falso, affinità e distinzioni, conducendo lo spettatore ad una contemplazione empatica e visionaria, che scaturisce dalla sorprendente umanizzazione dell'oggetto plastico così restituito.
Si tratta di una vera e propria metamorfosi, di uno slancio vitale, reso possibile grazie al sapiente utilizzo che l'autore fa della della fotografia, come mezzo più idoneo al raggiungimento del risultato perseguito: donare finalmente respiro alle opere riprese, creare modelli - protagonisti ed interlocutori - di un dialogo intorno all'erotismo e al desiderio.
Le fotografie di Cattani rivelano sembianze e fattezze sconosciute perchè travalicano l'oggetto in sé; decontestualizzate dall'immobilismo in cui storicamente vengono recluse dalla materia prima e dal tempo, queste figure rappresentano elementi vivi e complessi dotati di memorie dinamiche, che si mostrano come soggetti carnali, pulsanti e mutevoli.
Eros raccoglie gli anni di appassionate indagini e affascinanti percorsi nell'universo della scultura, in cui l'autore ha saputo intercettare e plasmare quegli aspetti oscuri e nascosti del desiderio, che finalmente si rivelano, grazie ad uno sguardo capace di cogliere istinti e pulsioni, non più confinati nella materia fissa e definitivamente forgiata, ma ora appartenenti alla realtà, alla sfera dell'emotività, perchè divenuti inequivocabilmente evidenti, in figurazioni di forte impatto visivo, come corpi vigorosi, dotati di profonda vitalità.
© Benedetta Donato, 2019
Volubili frammenti C'è un intuibile che devi cogliere con il fiore dell'intuire, perché se inclini verso di di esso il tuo intuire, e lo concepisci come se intuissi qualcosa di determinato, non lo coglierai. è il potere di una forza irradiante, che abbaglia per fendenti intuitivi. Non si deve coglierlo con veemenza, quell'intuibile, ma con la fiamma sottile di un sottile intuire che tutto sottopone a misura, fuorché quell'intuibile; e non devi intuirlo con intensità ma - recando il puro sguardo della tua anima distolto - tendere verso l'intuibile, per intenderlo, un vuoto intuire, poiché al di fuori dell'intuire esso dimora. Oracoli Caldaici,
Framm. 1
Ho guardato a lungo le foto di Cattani. Pezzo per pezzo. Senza didascalie. Cercavo nel mio ricordo il nome, l'autore, la data. Erravo, ma i riferimenti e le rievocazioni si annodavano da sole e casualmente.
Cattani, da vent'anni fotografo, all'inizio di cronaca e di politica, aprì nel 1984 il suo studio. Dal 1990 incominciò la sua ricerca. Si occupò di jazz prima, dei luoghi dell'arte poi. Tema che lo affascinò al punto da fondersi in lui in una forma molto personale: lui la sostanziò di e-mozioni. E se Giorgio Caproni descrisse il poeta come "minatore": "È poeta colui che riesce a calarsi più a fondo in quelle che il grande Machado definiva las segretas galerìas del alma, e lì attingere quei nodi di luce che, sotto gli strati superficiali diversissimi da individuo a individuo, sono comuni a tutti anche se non tutti ne hanno coscienza", e se disse che il poeta-minatore scova "quei nodi di luce che sono non soltanto dell'io, ma di tutta intera la tribù", allora ricorrerò a quelle parole in senso letterale, poiché qui ci sono nodi di luce che si sviluppano come nastri nella scatola nera del museo. Nastri su cui rimane impresso il segno del presente nel solco del passato. Qui la protagonista (smontata dall'osservatore distratto) è la simultaneità.
Cattani ha privilegiato la scultura (classica, romana, greca, antica) e i siti archeologici.
Ha scelto la polaroid, poiché restituisce l'idea della copia unica, del dagherrotipo. Lo sviluppo immediato consente istantaneamente di confrontare luci, sensazioni, ombre. Le sequenze si costituiscono sul posto e la selezione non segue la regola dell'inventario. L'aspetto puramente didattico dei soggetti non prevale nei suoi studi. Lui non vuole sentir dire "che bella foto della Venere... Sembra vera". Lui vuole che la Venere si muova.
E allora, rivolgendomi ancora alla sua opera, con la fiamma sottile di un sottile intuire che tutto sottopone a misura, fuorché quell'intuibile, intuisco quel movimento. E vedo un gesto non più pietrificato e spezzato, ma teso. Vedo i secoli prima e dopo Cristo. Vedo l'immobile e poi il cangiante. Vedo una lacuna imprimere l'assenza, e generare iterazione e continuità in un'ottica sublime, obliqua. Vedo statue che l'intaglio strappò dalla massa, farsi luce. Quei corpi che si ritraevano a ogni sbalzo dalla vita che incorniciavano, per mimarla, li vedo sorgere e rilucere come un guscio corallino in una luce monocromatica. Vedo la spirale di citazioni secrete e svincolate dalle didascalie, moltiplicarsi e librarsi dal buio come esoscheletri calcarei da un fondale oceanico. Vedo Segni-semi del passato che affiorano dall'ombra di una dimensione ulteriore. Vedo un lavoro teorico e riflessivo in cui come epifanie di divinità, le figure brillano di luce propria e sembrano essersi fatti da sé.[1] Nelle sue triadi e nei suoi dittici, Cattani riversa e armonizza secoli lontani. Con le sue composizioni segue la traccia di quel gesto interrotto. La sua opera è triplice e dialettica. Nella dispersione e nella scomparsa fanno da contrappunto consonanze tra intensioni ed estensioni: e la stasi, immortalata, genera un flusso.
Cattani si occupa del sêma non nel senso platonico (sôma-sêma, corpo-tomba), ma quale "segno" di uno spirito itinerante che si cerca nella materia.
I frammenti, su cui ritaglia la sua catena metonimica, appartengono a un'integrità perduta che la nostalgia non ripristina e di cui Cattani tesse una filigrana pigmalionica. L'orientamento si identifica a partire dalla proiezione della statua (è il potere di una forza irradiante, che abbaglia per fendenti intuitivi...) e si organizza sinteticamente, raccogliendo quella e-mozione.
Così scorgo un innesto della drammaticità scultorea nella immobilità bidimensionale: un segno dinamico, poetico e cinematografico.
Alle nostre apparizioni direttamente visibili, per causa vostra sono stati avvinti dei corpi
Oracoli Caldaici, Framm. 142 [1] Oracoli Caldaici, Bur Classici, a cura di Angelo Tonelli, p.7.
Per Bruno Cattani
Memento mori di una figura o di un paesaggio, la fotografia è pausa, attimo apparentemente "fermato".
Ma, quando l'oggetto è un'immobile statua di marmo, che l'artista fa attraversare da ombre tenere o minacciose o da soprassalti di luce, forse accade il contrario: frammenti di corpi sembrano avere appena compiuto un gesto, spalle mutilate sono sfiorate da morbidi abbracci - tutte immagini che come improvvise apparizioni perturbano la realtà statuaria, la materia di cui sono composte. L'artista sta inseguendo un suo progetto di rianimazione immaginale, di demiurgica metamorfosi. Ecco che a quelle figure viene concessa una vita seconda; il gioco complesso di ombra-luce, per virtù illusoria, le rende demi vivantes.
I paesaggi petrosi sono paesaggi naturali. Le erosioni, i cataclismi sanno mutare, nei secoli, il loro aspetto. Cosa può fare l'artista, e in particolare il fotografo? Cambiarli ancora, col suo strumento che oscilla tra realtà e interpretazione come un sismografo. Di grandi masse calcaree rileva un'espressività quasi umana, avvicinando la superficie della pietra al derma umano: sassi casuali diventano pieghe di corpi e di abiti, le loro rughe millenarie simboli di passaggi misteriosi, cupe porte sul punto di aprirsi. Così dovevano apparire questi scenari naturali ai personaggi delle Mille e una notte, come Alì Baba e i 40 ladroni...
Sono le prove precedenti di Cattani, che si collegano idealmente a queste, inaugurando la sua ricerca visiva sulla sostanza chiusa e compatta della pietra.
Anche un Paesaggio montuoso di Hercules Seghers e un Autoritratto da vecchio di Rembrandt sono paesaggi: i sassi millenari hanno la densità espressiva delle rughe umane e le fronti umane la potenza minerale della pietra.
La Maddalena di Donatello, corpo ligneo di vecchia rugosa, appare all'improvviso, in un corridoio degli Uffizi, come un fantasma minaccioso. Rughe e brandelli della veste si avviluppano in osmosi perfetta restituendoci un unico paesaggio selvaggio, arido e montuoso. C'è una somiglianza inquietante tra lei e alcune delle opere più straziate di artisti del Novecento, quasi fosse la Maddalena stessa l'oscuro frammento del «capolavoro sconosciuto» di qualche incompreso Frenhofer.
L'espressività emotiva di Cattani è inventare un nuovo artificio nell'antico artificio, sprigionare un'aura che conferisca alla scultura una diversa e più eloquente profondità, un'aura che comprenda anche la memoria di tutti i gesti precedenti compiuti da quel corpo.
In certi acquerelli di Turner, Venezia è una città disgregata, stregante, semidissolta, come in realtà, è solo in certi momenti: quando quel preciso riflesso di luce o quell'imprevedibile chiaroscuro la traversano. Una finzione che non reinventa la realtà, ma è reale. Così certe statue, apparentemente consegnate alla quiete del marmo, pervase dall'obiettivo di Cattani, sembrano animate da un palpito anomalo, che non appartiene alla loro materia. Spesso, grazie a quelle inquadrature, non le vediamo né in pieno giorno, con luci piatte e assolute, né a notte alta, in assenza di luce, ma nell'attimo in cui sono reali proprio come la Venezia di Turner, «luoghi dove le logiche non sono di marmo, ma votate alla costruzione di impossibili estasi infinitamente fragili» (Ettore Sottsass).
A fotografare in piena luce non si vedrebbe nulla. Mezzogiorno, come suggerisce Roger Caillois nei Demoni meridiani, è l'ora dei morti. Invece, nei loro dialoghi con l'ombra, i piedi marmorei, immobili da secoli, mostrano sempre un desiderio rimosso di muoversi, e rivelano una pelle sottile, quindi paradossale. Sono i chiaroscuri inventati dall'obiettivo a suggerire la presenza allusiva di una carne viva, che si intravede o si immagina appena quando, girando attorno alla schiena di una statua ci domandiamo: chi voglia scolpire un incarnato, quale tono darà con lo scalpello a quel marmo, in assenza di colore e in assenza di ombre?
L'utopia di Cattani è togliere le statue dal loro habitat - e farle danzare. Esporle al vento, un vento che è entrato, all'improvviso, proprio nel museo o in qualche galleria vaticana. Riportare in vita l'eros che il marmo ha solo trattenuto e proiettarlo sottopelle come nuova linfa. In fondo, gli antenati ci sono sempre vicini. Greci e latini sono i nostri padri. Sta a noi credere che possano ancora dirci qualcosa. Non sono più figure scolpite ma corpi disposti a fare l'amore, a dialogare con noi.
Che cos'è un viso
il tu del corpo
gli si da un nome
scavando l'orbita
piccolo crimine d'aria
dove beve il tempo
una pietra di pelle
lassù posata
sulla fine di sé (1)
Il grande libro scolpito da Vincenzo Agnetti è un enorme codice, totalmente vuoto. Spalancato, mostra due enormi pagine bianche. In ognuna di esse, ritagliato con geometrica precisione, un rettangolo nero che continua in basso, per tutte le altre pagine invisibili sotto a quella. E' un libro senza parole. Tutti i segni dell'alfabeto sono chiusi nel rettangolo liscio e abissale, profondo per tutte le pagine del libro, i cui margini non suggeriscono più l'usura del tempo e degli elementi. Come se un bisturi avesse inciso, con quel nero imperioso ed esatto, la forma potenziale della scrittura assente. Allo stesso modo, in certe "statue di" Cattani, appare come una rivelazione il nodo segreto tra eros, pensiero e sentimento, sprofondato dentro la solida griglia della scultura.
Il magico gioco dei chiaroscuri riesce a movimentare le pietre, a farle respirare. Nel caso di Michelangelo, che imprigiona nella pietra i suoi Prigioni, quel movimento chiaroscurale è già insito nell'opera, sottrae le figure al codice dei significati, alla finitezza della statuaria marmorea. Non rifinendo quei corpi, Michelangelo ha loro assegnato potenzialità e promessa di vita futura, affinando la nostra immaginazione. Se il fotografo, a quel non-finito, sovrapponesse gli scatti delle sue foto, ne scaturirebbero ulteriori possibilità, altre dissoluzioni e miraggi, altre vie di fuga per le figure prigioniere del marmo.
Alcuni corpi marmorei sono spesso di una provocante e docile bellezza: la forma sinuosa si sposa e si potenzia nel bianco, livido o vivace, come fonte di luce da tenere sempre presente e con cui fare ogni volta i conti. Può modellare il corpo come alluderlo o eluderlo, o farsi interpretare solo come sfumatura cromatica, in assenza di colore.
Risparmi la tua verginità. A che scopo? Non è scendendo
al regno dei morti che troverai chi ti ama.
Il piacere d'amore sta solo tra i vivi; nell'Acheronte,
ragazza mia, giaceremo tutti, ossa e cenere. (2)
L'originalità dell'artista è mostrare un gruppo di figure, come attori drammatici di un coro erotico che vuole ancora danzare e far udire la sua voce.
Il desiderio demiurgico di rianimare una statua e renderla creatura viva e desiderante è un desiderio non impossibile per l'arte del fotografo, se riesce a inventare prospettive altre, strategie erotiche nuove che disorientano le abituali dinamiche spaziali. L'obbiettivo e le statue diventano i protagonisti di un'arte drammatica e interlocutoria. Così è la bellezza: mai statica, sempre incompiuta, sempre perturbante.
È l'arte dell'emersione: qualcosa che era nascosto in una piega del marmo e che l'occhio condizionato dai propri confini avrebbe voluto vedere, affiora improvvisamente, grazie all'obbiettivo commosso e veggente di Cattani.
Medardo Rosso aveva un'ossessione: rendere la figura scolpita meno materiale possibile, dissolta nell'aria e nella luce. Ciò che importa per me nell'arte è di fare dimenticare la materia lui scrive. Una scultura come Carne altrui, fotografata da lui stesso nel 1884, evidenzia questa poetica con particolare intensità. La folle utopia di Rosso era condivisa anche da Auguste Rodin, le cui figure sono tormentate da torsioni complesse, in uno spasmo amoroso e potente che non esclude la monumentalità. Cattani, fotografo delle sue opere e non di quelle di Medardo, intimizza le sculture del Museo Rodin, rendendole piccole e delicate come fossero i custodi immateriali di un segreto, comune alla morte come all'amore.
L'atto fotografico, come una lama, "taglia" una gamba, una testa, un braccio, e mostra un'altra testa, un'altra gamba, un altro braccio, li svela, li sovrappone, li isola nello spazio. Scrive Emile Zola: «Non si può dire di aver visto qualcosa a fondo se non si è scattata una fotografia che rivela tanti dettagli che, altrimenti, non potrebbero essere visti».
Occorre, per figure e paesaggi scolpiti, trovare un tono altro, una linea musicale. Affidarsi a una melodia di flauto, a un assolo di sax?
In tutte le opere c'è sempre un luogo interno, che preserva dalla distruzione e dal malinteso. La scultura dovrebbe ignorare l'ombra essendo fatta per l'esposizione totale alla luce. Ma è proprio di questa ombra interna che Cattani vuole parlarci, non smettendo mai di evocarla, indagarla, e dialogare insieme, come si fa con un fantasma amato. L'articolazione del visibile con l'invisibile è il progetto ambizioso dell'artista, progetto sensuale, utopico, che reinventa figure di carne spettrali - coppie che si parlano, braccia che si protendono in presumibili abbracci, piedi che vorrebbero camminare, mani tese ad accarezzare altre mani più calde.
Ben la pietra potrei
per l'aspra suo durezza,
in ch'io l'esempro, dir c'a lei s'assembra;
del resto non saprei,
mentre mi strugge e sprezza,
altro sculpir che le mie afflitte membra.
Ma se l'arte rimembra
agli anni la beltà per durare ella,
farò me lieto, ond'io le' farò bella. (3)
Lavorare un blocco di pietra, marmo, bronzo, gesso, metallo, è volerlo rendere simile a un vaso non totalmente pieno, dove l'aria può circolare. Michelangelo, per primo, sostenne l'arte del levare. Compattezza e durezza si apparentano con l'idea di compiutezza e quindi di morte. Chi lavora con la pietra o con materiali solidi e duri, ha come suo imprescindibile interlocutore l'aria. E' una sfida assoluta e paradossale tra rigidità e fluidità plastica. Al punto estremo di questa lotta di sottrazione e liberazione, stanno le sculture di Giacometti e di Melotti, e di chi, ora sempre di più, si è messo sulle sue tracce. Cattani lo realizza a ridosso delle statue di cui, con amoroso voyeurismo, ripercorre i luoghi della memoria, realizzando un dialogo sempre attuale con i suoi modelli di pietra, colti ad altezza d'uomo. Avventuroso ma "classico" nella scelta dei soggetti, Cattani è il fotografo di un paesaggio di statue classiche: anche lui, come lo scultore, realizza una sfida a tutto campo coi materiali, in un confronto "estremo", coltivando ostinatamente un progetto di resurrezione.
Gli occhi miei potrà chiudere l'estrema
ombra che a me verrà col bianco giorno;
e l'anima slegar dal suo soggiorno
un'ora, dei miei affanni più sollecita;
ma non da questa parte della sponda
lascerà la memoria dove ardeva:
nuotar sa la mia fiamma in gelida onda.
E andar contro la legge più severa.
Un'anima che ha avuto un dio per carcere,
vene che a tanto fuoco han dato umore,
midollo che è gloriosamente arso,
il corpo lasceranno, non l'ardore;
anche in cenere avranno un sentimento;
saran terra, ma terra innamorata. (4)
"L'amore costante oltre la morte" è esattamente l'amore che l'artista sviluppa quando profana il tabù di una statua museale, quando cerca la sua identità nei riflessi di un frammento, dando dolcezza pittorica ad un'ombra o energia a una luce: allora il profilo imperioso di un romano, la caviglia di un efebo greco, le orbite vuote di un volto neoclassico, la curva cupa dei pettorali o l'arco trasparente di una schiena, diventano i reperti indiretti di un percorso biografico che oscilla tra malinconia e trasfigurazione, ancora tutto in progress. La scelta di Cattani è, come afferma lui stesso, una scelta estetica, in cui le figure si rispondono, si scambiano sguardi, ripetendo gesti che hanno fatto la loro storia.
Lucetta Frisa e Marco Ercolani
Note
1. Bernard Noël, L'ombra del doppio, Novi Ligure, Joker, I libri dell'arca, 2007.
2. Asclepiade, Dal libro V dell'Antologia Palatina, in Antologia palatina. Epigrammi erotici, Milano, Rizzoli, 1989.
3. Michelangelo Buonarroti, Sonetto 242, in Rime, Milano, Rizzoli, 1975.
4. Francisco de Quevedo, Amore costante oltre la morte, in Sonetti amorosi e morali, Torino, Einaudi, 1965.
"Il tempo, grande scultore", recitava il titolo d'una raccolta di saggi di Marguerite Yourcenar: così, Bruno Cattani si accosta alle opere racchiuse in diversi musei con lo sguardo disposto a cogliere un doppio scorrere del tempo, quello della scultura e quello della fotografia.
Tempi immobilizzati, in apparenza, in realtà continuamente sottoposti a una rielaborazione concettuale e visiva che non può mai considerarsi conclusa, poiché tanto l'opera d'arte (o il manufatto votivo divenuto, col passare degli anni, oggetto degno di considerazione estetica oltre che antropologica) quanto la fotografia vivono dentro un flusso di tempo inarrestabile, determinato anzitutto dalla volontà di chi guarda, e di chi scatta. Erede d'una tradizione di fotografia di documentazione artistica che si trasforma in pura interpretazione soggettiva, Cattani crea l'immagine a partire dai rapporti tra la figura e lo spazio nel quale essa vive: figura a pieno titolo, dunque, non solo scultura ma personaggio, attore di una mise en scene che il fotografo trova già allestita e alla quale aggiunge un ulteriore spazio, quello dell'inquadratura. Fotografia d'opera d'arte che diviene a sua volta opera, destinata all'esposizione negli stessi luoghi, o in luoghi analoghi, a quelli che l'hanno vista nascere, che le hanno fornito la materia prima; non un paradosso, ma una naturale estensione, ancora una volta, del tempo, da quello passato al futuro che, idealmente, rappresenta un museo d'arte contemporanea come la Galleria Civica di Modena.
Capita, in pittura, che un artista trovi un motivo che suscita l’interesse e il favore degli appassionati, e allora la tentazione di ripeterlo – magari con versioni stanche e raramente intrise di quel pathos che anima la scoperta e la rivelazione di qualcosa di nuovo, quando esso va a interagire con l’interiorità – può diventare irresistibile – a meno che, come è successo per le nature morte di Giorgio Morandi, ciò che l’artista rappresenta sia puramente funzionale alla pittura: come ha scritto Avigdor Arikha, “Morandi è un pittore astratto che con i suoi quadri attingeva al visibile” (1). Anche in fotografia, potrebbe verificarsi questa deriva che ha abbagliato, e continua a sedurre, alcuni pittori, anche se chi si confronta, in occasione di ogni scatto, con una porzione di reale è necessariamente costretto ad affinare lo sguardo su soggetti sempre diversi, che magari possono avere qualche elemento di déjà-vu, ma che sempre lo obbligano a misurarvisi nella loro irriducibilità – come avviene per chi, in pittura o nella fotografia artistica, si cimenti con il ritratto di una persona.
Sette anni fa Bruno Cattani tenne una mostra di sue fotografie a colori al Palazzo dei Principi di Correggio, Memorie – questo era anche il titolo del volume che l’accompagnava (2) –, che si sarebbe rivelata uno snodo decisivo nel suo percorso. In verità, quelle opere – immagini della città natale e di altri luoghi in cui si era trovato, compresi gli interni di fabbriche abbandonate, di umili case, del manicomio dismesso di Novara, sulle quali il suo sguardo si era soffermato, intriso di un sentimento di nostalgia e di un tono elegiaco per una lontananza, soprattutto temporale, di cui Cattani sembrava cogliere, insieme, il valore perenne di testimonianza di verità e il senso di una perdita talvolta lancinante – non costituiva un approdo imprevisto, giacché tutto il suo lavoro precedente (penso alle immagini in bianco e nero scattate all’interno dei musei o nei giardini abitati da sculture) era in fondo segnato dalla medesima impronta e educazione sentimentale. In questi ultimi anni Bruno è andato approfondendo questa sua ormai elettiva visione, senza tuttavia mai tradirne il senso profondo delle motivazioni e degli esiti cui lui aspira. Non mancano, del resto, nell’universo, anche quello a noi più prossimo, e quotidianamente contiguo e familiare, occasioni per imbattersi in lacerti del reale, dentro una determinata situazione di luce, ed allora per un artista-fotografo scatta il desiderio di fissarli attraverso uno sguardo consapevole del valore di ciò che un tempo conoscemmo, che abbiamo perduto e che ora torna a rivelarsi.
Scorrono davanti a noi alcune delle immagini che Cattani ha incontrato in questi anni, durante i suoi viaggi: innanzitutto, i giochi che rievocano l’età perduta dell’infanzia. Se qualche tempo fa erano i giocattoli veri e propri, magari minuscoli, ad intrigarlo, ora sono le giostre circolari per bambini, con i cavalli fissati su una piattaforma rotante, sui quali chi s’affaccia alla vita si issa, mentre il duplice movimento, del disco e del cavallo, lo illude di stare andando al galoppo, sentendosi ormai proiettato in una dimensione fantastica. Sono, ancora, un grande cavallo a dondolo, solitario nell’angolo di un giardino, con i due sedili alle estremità per chi voglia sfidarsi e divertirsi in una contesa senza fine, e sono i calcinculo, con le persone sui seggiolini che ruotano nel cielo e che sentono che ormai sconfitta è la forza di gravità. Oppure, lo sguardo di Cattani si è posato sulle insegne di un albergo e di uno stabilimento balneare, sul piccolo aereo issato sul tetto di una casa, lì misteriosamente atterrato. Bruno ha pure ideato e composto un trittico di particolare suggestione, con un piccolo aereo rosso al guinzaglio di una struttura metallica – che, a seconda del lato da cui si inizi a guardarlo, pare intento all’atterraggio o al decollo –: un movimento che immediatamente dischiude dentro di noi la memoria dei giochi dell’infanzia, quando trainare, attraverso una cordicella, un camioncino, un piccolo treno o un aeroplanino, significava cominciare a ridurre alla nostra dimensione di bambino ciò che pareva incommensurabilmente più grande di noi. Ed ancora: il frammento di un muro su cui sono dipinti tre tonni blu e quello che reca, raffigurati, un prato, fiori e uccelli in volo; l’antico busto marmoreo verso cui si protende dal basso una mano, quasi volesse accarezzarne la barba o afferrarne con impertinenza la punta; i vetri di una finestra che riflettono un palazzo di fronte, con una tenda bianca che fuoriesce all’estremità sinistra e la mano di una statua vicina (che possiamo solo immaginare) che si protende per afferrarla; le vite e i brani di realtà racchiusi in una stanza (gli abiti appesi, il letto sfatto) che traspaiono dall’interno od oltre le finestre di un edificio; i tabelloni per insegne pubblicitarie vuoti, quasi trasparenti e dello stesso colore plumbeo del cielo che li sovrasta. E ci sono infine alcune immagini che apertamente ci introducono nei territori di ciò che potremmo definire gli enigmi, i misteri che s’annidano nelle vite ordinarie: la luce solitaria sotto un albero, con sopra un cielo stellato senza confini, porta di accesso all’infinito (una fotografia che pare la rappresentazione visiva della massima di Kant cara a Luigi Magnani: “il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro di me”); la casa nella notte, davanti alla quale sostano due pick-up (un’immagine che sarebbe la copertina perfetta per una detective story); la pioggia battente nella notte, con i fari di un’auto (dal cui interno la fotografia è stata scattata) che esplorano il buio che tutto avvolge: la campagna, gli alberi, l’arduo confine da distinguere tra la strada da percorrere e i campi che l’affiancano. Quanti misteri sono racchiusi in queste immagini! Pensiamo solo, per fare un ulteriore esempio, al piccolo tendone da circo allestito all’interno di un capannone industriale… Ecco confermata un’intuizione di Charles Simic, lo scrittore di origine serba che vive da sessant’anni negli Stati Uniti: “L’occhio attento rende il mondo misterioso”. (3)
Una fotografia – ci conferma Cattani – può svelarci cose che fino al momento in cui la guardiamo erano rimaste nascoste, celate nell’apparente ordinarietà del reale, e che solo quel congegno diabolico racchiuso nella macchina fotografica (attraverso la scelta di una certa inquadratura, dentro una certa luce) riesce a cogliere. Certo, prima di noi chi l’ha scattata ha avuto modo di guardarla, talvolta di prefigurarne, come fanno i grandi fotografi, l’esito finale, o perlomeno di intuirlo, anche se solo nel processo di stampa spesso se ne colgono i misteri – come fa, emblema paradossale di queste virtù rivelatrici della fotografia, Thomas (David Hemmings), il protagonista di Blow-Up di Michelangelo Antonioni, quando scatta le sue immagini nel parco e poi, sviluppandole, arriva addirittura a intravedere un tentativo di assassinio.
Ciò che accomuna tutte le immagini di Cattani è quest’epifania, questo miracolo di un incontro inaspettato, di una memoria ritrovata. Il termine di “Memorie”, con il quale Bruno continua a connotare la sua raccolta di immagini, assume dunque una duplice declinazione, del resto insita in una parola così ricca di suggestioni e gravida di significati: il fotografo, nel cammino della sua vita, incontra situazioni che fanno scattare e riaffiorare in lui certe sensibilità, sepolte e a lungo rimaste, come i sensi che non vengono sollecitati dall’uso, silenti; colui che guarda queste immagini vi ritrova sentimenti e ricordi perduti, associazioni di senso che altrimenti mai si sarebbero affacciate alla sua mente. È davvero straordinaria la capacità di una fotografia di smuovere l’immaginario, di fare scattare una rêverie, una fantasia, forse talvolta memorie di sogni e di fantasmi, in cui si mescolano esperienze della realtà, letture di romanzi, visioni di film. Ci si può così riconoscere, grazie alla nostra educazione sentimentale, in qualcosa che, pur essendoci ignoto, pur non avendo mai fatto parte della nostra esperienza visuale nel corso della nostra vita, ci appare come familiare. Grazie a fotografie come quelle di Bruno Cattani possiamo cogliere la verità profonda di un’altra annotazione di Charles Simic: “Si può provare nostalgia per un tempo e un luogo che non si sono mai conosciuti? Secondo me sì”. (4)
Che cosa rende peculiari e riconoscibili le immagini di Bruno Cattani del ciclo Memorie? Al di là della diversità dei soggetti – che tuttavia, se li si esamina attentamente, coprono uno spettro ristretto del reale, pur essendo stati fissati in luoghi anche molto lontani del mondo, quasi che Bruno abbia ormai selezionato un proprio linguaggio, un proprio codice di lettura che sa riconoscere e nominare alcune cose –, ciò che s’impone al nostro sguardo è il taglio prospettico e il tono che le pervade. Cattani padroneggia la cultura del frammento, assieme all’esigenza di geometrie che tutto governino – si pensi ai non infrequenti rispecchiamenti tra cielo e terra, accentuati da un tono che uniformemente li pervade –, e dell’importanza, talvolta determinante, di ciò che sta fuori dell’immagine, e che possiamo intuire con la fantasia o con qualche lacerto che appare magari sui bordi. Nello stesso tempo, è chiaramente andato alla ricerca e alla conquista, in questi anni, di una tonalità che caratterizzasse i sentimenti che intendeva esprimere. Se nelle prime opere tutto pareva rivestito di un colore un po’ plumbeo e fosco, quando la luce declina verso il buio o quando nuvole compatte impediscono ai raggi del sole di squarciare il velo che scherma l’azzurro del cielo, ora talvolta il mondo ci appare più terso, anche se sempre c’è qualcosa di biancastro e di caliginoso – una sorta di chiarore nevoso, come se in tutta la visione aleggiassero evanescenti fiocchi biancastri – che ci ricorda la distanza da un luogo e da un tempo, che non possono mai essere quelli in cui ci troviamo ora immersi a guardare. Arikha ha osservato che lo stile è “una frequenza” che “sta all’artista come il timbro della voce sta all’uomo” (5): Cattani ha ormai conquistato un proprio stile peculiare, che lo rende immediatamente riconoscibile; la voce di Bruno si è fatta in questi anni forse più pacata e sommessa, ma ancor più ricca di sentimenti e di sfumature. Nelle sue immagini trovano spazio “le ragioni del cuore” di cui parlava Blaise Pascal (“il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce” (6)), certo da non intendersi come sentimentalismo buono per tutte le stagioni e occasioni, ma come pensiero, intuizione poetica della mente che sceglie di vedere il reale attraverso il filtro congiunto del cuore e delle ragione: le sue immagini sono l’esito di una visione del mondo e di una percezione dell’occhio, che sa selezionare certi scorci. Stile e tono tutto impregnano e unificano in queste immagini, che ci coinvolgono in sensazioni che vanno ben oltre il piacere dello sguardo, per diventare riflessioni sul valore e sul senso dell’esistenza, per di più catturati da queste inestricabili visioni di familiare e di magico. Mi paiono, le fotografie di Cattani, la conferma della verità profonda che Glenn Gould aveva intuito: “Lo scopo dell’arte non è procurare una momentanea scarica di adrenalina ma è, piuttosto, la costruzione graduale di uno stato di meraviglia e serenità che dura tutta la vita”(7).
“Cortili recintati con alte reti, a cui si affacciavamo uomini che sembravano larve. [ ... ] Nessuno parlava, nessuno rivolgeva la parola all’altro. Qualcuno borbottava fra sé, ciascuno isolato nella propria sofferenza e nella propria malinconia. Le teste rasate li rendevano l’uno uguale all’altro, così come era uguale per tutti lo sguardo perso, che ti sfiorava senza vederti. [ … ] Le donne, nei loro recinti separati, apparivano ancora più desolate. Spettinate, sporche, infagottate in camicioni di tela, quando non erano chiuse e legate in un sacco che lasciava sporgere solo la testa, avevano sguardi di animali portati al macello o gli occhi esaltati di chi aspetta il momento della vendetta. Qualche nastro colorato fra i capelli ingialliti testimoniava i resti di una civetteria lontana, infantile, di cui non restavano tracce sui volti di bambine invecchiate. Donne giovani, precocemente ingrassate a causa dei farmaci, della vita immobile, fissa, sedevano su panche lungo le pareti del camerone, unico arredo per i giorni di tutta una vita. Dondolavano su e giù, avanti e indietro, solo movimento che testimoniasse che, a modo loro, erano vive. [ … ] A tavola, nei refettori squallidi - tavolacci nudi e panche – questi animali che si cerca di addomesticare, non avevano posate. Un piatto di latte e un cucchiaio: con il cucchiaio dovevano far tutto, perché coltello e forchetta sono armi pericolose. E la carne come la mangiavano? La strappavano con i denti, come bestie, e chi non aveva i denti non mangiava. Ma erano in tanti senza denti, perché chi mai si preoccupava di curare i denti ai “matti”? Se c’era un dente che faceva male, lo si toglieva e quando non ce ne erano più da togliere, il problema era risolto”. Esistenze sepolte, all’interno del manicomio, tra le rovine della follia, così magistralmente descritte da Franca Ongaro Basaglia, la cui intuizione conclusiva è folgorante : “Ma se, agli occhi di un profano, quelle donne e quegli uomini apparivano come animali che avevano perso ogni aspetto umano, era la malattia la responsabile di quell’abbrutimento o non piuttosto il modo con cui la si trattava ? Se non consenti all’uomo una possibilità di vita, come pretendere che la sua umanità riesca a sopravvivere ?”.
Segregazione, medicalizzazione ed esclusione totale dietro quelle assurde mura manicomiali che nascondevano una tragedia sociale consumata lontano dagli occhi del mondo.
Letti di contenzione, celle d’isolamento, camicie di forza, elettroshock punitivi.
Certo, un clima di violenza e di sopraffazione; ma forse ciò che più colpiva all’interno del manicomio era il gelido deserto affettivo che circondava il ricoverato, soffocandolo e condannandolo ad una lenta ed inesorabile cronicizzazione.
Le alte mura che separavano l’ospedale psichiatrico dal resto della città erano solo la testimonianza più evidente di un’esclusione, un’emarginazione, un isolamento per donne e uomini abbandonati a sé stessi e privati non solo di ogni affetto, ma anche dei più elementari diritti umani.
Ovunque, all’interno del manicomio, si coglievano segni di una vita disumana e invivibile che condannava inesorabilmente alla morte psichica, alla morte.
Quando, all’inizio degli anni settanta, in una fredda giornata d’ inverno, varcai per la prima volta, giovane studente di medicina, il cancello del manicomio della mia città, notai all’ingresso, sulla facciata dell’ospedale, il grande orologio. Le lancette erano ferme. Un brivido mi percorse, forse complice il freddo invernale, forse l’emozione del giovane studente che entra in quello che potrà essere il suo futuro luogo di lavoro. Certo che quell’orologio fermo, con le lancette bloccate, in quella giornata d’inverno, era perfetta metafora del luogo in cui stavo entrando: un luogo dimenticato in cui il tempo si era fermato per sempre e le emozioni si erano congelate.
Sono questi “i luoghi della follia”, oggi chiusi (speriamo per sempre …), in cui Bruno Cattani è entrato, con discrezione, per documentare, attraverso le sue fotografie, cosa fu in realtà il manicomio: uno spazio senza tempo, di inumana desolazione e di disperata solitudine.
Immagini drammatiche dove inferriate, chiavi, letti e celle di contenzione rimandano all’ambiente carcerario più che all’ospedale, alla custodia più che alla cura, alla perdita di libertà più che ad una ricerca di senso e di identità.
Mobili standardizzati e grigi e muri tetri, in buie e gelide stanze dove neppure la luce del sole, attraverso quelle finestre tutte uguali, riesce a portare con sé un po’ di calore.
Corridoi infiniti che videro passi senza speranza di uomini che trascinavano scarpe senza lacci (perché anche i lacci possono essere strumenti di morte), tenendosi i calzoni con le mani (perché con la cintura ci si potrebbe impiccare), privati di qualsiasi oggetto personale e vestiti con anonime divise manicomiali.
E poi, sempre nelle foto di Bruno Cattani, la feroce quiete dei giardini manicomiali; sedie arrugginite e rivolte al muro, che rimandano a comunicazioni interrotte e forse impossibili; cartelle cliniche che in poche pagine pretendono di raccontare vite e di cogliere mondi e dove la nota “prosegue invariato”, ripetuta di anno in anno, diventa pietra tombale su ogni eventuale possibilità di cambiamento.
Una psichiatria senza speranza, questa, una psichiatria che analizza i sintomi quali fossero elementi costitutivi di un universo morto e pietrificato; una psichiatria senza anima e senza spirito che rifiuta ogni interiorità e, soprattutto, che rifiuta l’ascolto di ogni interiorità esistenziale del paziente. Una psichiatria che vorremmo abbandonata per sempre, come la rigida ed impersonale valigetta del medico che Bruno Cattani fotografa tra i calcinacci del manicomio. Ben diversa dalle altre valigie, le valigie dei folli, nascoste sotto i letti: valigie che non sanno di scienza, che sanno soprattutto di povertà e di miseria, ma anche di un estremo anelito di libertà, nella nostalgia e nel desiderio insopprimibile di un ritorno a casa.
Fotografie che colgono, con grande sensibilità, lampi di una profonda umanità anche nel disperato tentativo di mantenere, all’interno di un ambiente spersonalizzato e spersonalizzante, piccole cose che possano far soffermare e allietare lo sguardo: disegni, ritagli di giornale, collage che rimandano, anche con i loro colori, alla vita al di là del muro e ad una possibile speranza per un’umanità dolente e disperata che solo il Cristo spezzato e abbandonato (in una delle fotografie forse più toccanti) può accogliere e consolare.
Oggi, a trent’anni dalla approvazione della Legge 180, il manicomio, certo, è chiuso, ma continua ad essere lucida metafora dell’esclusione su cui diventa, più che mai, necessario riflettere. E Bruno Cattani compie, in questo senso, un importante lavoro di testimonianza che, al di là del valore artistico, acquista un indiscutibile valore sociale. E’ il valore della memoria. Anche perché sappiamo che non è sufficiente abbattere le mura del manicomio per distruggere i fantasmi che sulla follia e sulla ‘diversità’ si espandono: occorre che alla trasformazione operata sul reale si accompagni una trasformazione a livello simbolico e occorre anche che sulla tragedia manicomiale e sulla lotta per una psichiatria dal volto umano non cali il velo della rimozione collettiva.
A tale proposito Franco Basaglia, in una delle ultime occasioni di riflessione pubblica sul significato complessivo dell’impresa della sua vita, nel 1979, un anno prima della sua morte e un anno dopo l’entrata in vigore della Legge 180, ci dice, con la sua formidabile capacità comunicativa, parole indimenticabili: “L’importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile può diventare possibile. Dieci, quindici, venti anni addietro era impensabile che il manicomio potesse essere distrutto. D’altronde, potrà accadere che i manicomi torneranno ad essere chiusi e più chiusi ancora di prima, io non lo so! Ma, in tutti i modi, abbiamo dimostrato che si può assistere il folle in altra maniera e questa testimonianza è fondamentale. Non credo che essere riusciti a condurre una azione come la nostra sia una vittoria definitiva. L’importante è un’altra cosa, è sapere ciò che si può fare”.
Domenico Nano
Direttore Dipartimento Salute Mentale ASL-AOU Novara
Psicoanalista S.P.I.
La memoria, in un gioco del bello/brutto, istintivamente viene posta nella cesta del bello.
Effettivamente, nel pensare alla memoria abbiamo, di primo acchito, sempre una naturale propensione all’incanto. Come se nelle nostre vite tutto il passato fosse incanto, rispetto al presente e a tutto ciò che deve venire. Soltanto in seguito, quando ci fermiamo un istante a riflettere, il nastro riavvolto ci porta oltre l’adolescenza, a fare i conti con la complessità della nostra vita. Anzi, a ben vedere, la memoria assume un valore prettamente ontologico e ci mette a confronto con il senso stesso della nostra vita, molto distante dal gioco del bello/brutto.
La radice di memoria (smer), presente nel memor latino, la ritroviamo nel sanscrito per la parola amore (smaras) e nel greco per dire cura (mermera), ma anche affanno (merimna).
Memoria dunque come ricordo, cioè “ritorno dal cuore” (re e cor), dove la memoria ha la sua sede: come ricordo vivo, accompagnato da cura, amore, affanno.
Dunque la memoria deve essere intesa come cura e amore per i ricordi. Certo anche come processo fisiologico di acquisizione, ritenzione e richiamo, come spiegano le neuroscienze, ma con un forte valore emotivo, quasi affettivo, come suggerisce la radice smer.
Memoria e identità
Ed è proprio tramite il suo valore emotivo e cognitivo che la memoria è capace di generare crescita, perché capace di generare apprendimento. E’ infatti grazie alla pazienza, alla cura, all’amore, all’affanno, propri della riflessione, che le esperienze acquisite nella memoria e richiamate dai ricordi vengono smontate, sminuzzate e rielaborate nelle forme dell’apprendimento e della crescita. Proprio come avviene nei frammenti, nei dettagli della nostra vita quotidiana, così la fotografia scompone e ricompone le situazioni e ci restituisce gli elementi per comporre il collage della nostra esistenza.
Crescere presuppone il coraggio di scendere nella profondità del proprio abisso per potersi guardare e conoscere: senza memoria e riflessione non abbiamo apprendimento né crescita.
Ed è proprio grazie a questo processo riflessivo che i ricorsi esperienziali, pur ripetendosi nelle condizioni, si collocano, come in una spirale, sempre ad un piano diverso e superiore rispetto a quello dei corsi precedenti. E’ cioè la memoria riflessiva che ci permette di non compiere più gli stessi errori, di non attivare procedure disfunzionali in modo patologico, di superare le difficoltà che incontriamo. E’ quella memoria che ci consente di avere ogni giorno più coraggio, perchè diveniamo ogni giorno più competenti della vita. Attraverso l’esperienza, la memoria e la riflessione elaboriamo così la nostra identità nel confronto continuo con noi stessi e, per differenza, con gli altri.
La memoria, cioè, non è mai un fatto statico di deposito informativo (cache), ma un processo relazionale, emotivo e cognitivo, essenziale per la crescita delle persone e la costruzione continua dell’identità personale nel tempo. Senza memoria non c’è crescita e non c’è identità. Senza memoria non abbiamo la libertà di essere noi stessi perché senza memoria non sappiamo chi siamo.
Dunque è facile capire una prima ragione perché mettiamo sempre la memoria nella cesta del positivo. Senza memoria non siamo.
La fotografia in questo senso ci propone la realtà che vede il fotografo ma nel contempo ci consente di costruire la nostra. Vediamo solo ciò che conosciamo e così anche quando cerchiamo di leggere nella memoria dell’artista in realtà è la nostra memoria che ci racconta le fotografia. Così, se non siamo, nelle foto non vediamo nulla, ma, se siamo, vediamo tutta la nostra storia, la nostra memoria, tutte le cose che abbiamo imparato della vita.
Memoria e paura
A volte, al contrario, la memoria sembra essere un ostacolo alla crescita. Quando il processo di apprendimento e costruzione dell’identità avviene principalmente solo nel tempo e nella propria memoria, quando il nucleo delle esperienze è limitato, quando l’identità per differenza è difficile da costruire perché le relazioni possibili sono poche, allora la memoria improvvisamente ci sembra un limite e non più una risorsa.
La memoria e l’identità allora divengono una gabbia entro la quale chiudersi in difesa, per paura degli altri, di tutto ciò che la nostra esperienza non ha conosciuto e dunque la nostra memoria non contempla.
In questa fase storica di forti mutamenti negli assetti demografici e negli stili di vita, le persone e le comunità che nella propria memoria individuale e collettiva non hanno archiviato la diversità come esperienza della vita adottano comportamenti di forte chiusura. In questi casi la memoria non è più un strumento per crescere, ma, al contrario, un inibitore della crescita per differenza e un forte incentivo all’esclusione del diverso.
La memoria come unica fonte di identità diviene cioè un bene così prezioso da difendere e custodire da esperienze altre, diverse e soprattutto non archiviate (e dunque non contemplate); essa diventa il recinto nel quale circoscriviamo la nostra vita.
La difficoltà di far convivere culture è cioè la difficoltà di far convivere memorie. Così come, ad esempio, la perdita della memoria di una dittatura diviene un rischio per la democrazia, allo stesso modo l’eccessivo valore dato esclusivamente alla propria memoria diviene ostacolo alla convivenza tra i popoli. La memoria diviene allora una zavorra nell’affrontare il futuro. Di fronte a un mondo senza ideologie, di fronte al futuro che non è lineare, comprensibile e “prendibile”, la memoria diviene un appiglio fortissimo per dare un senso alla nostra vita, per ritrovare la nostra capacità di affrontare la vita. Ma diviene anche un alibi per tutto ciò che non sappiamo apprendere di nuovo, per non affrontare nuove esperienze che ci spaventano, per non dichiarare a noi stessi la nostra incompetenza di fronte alla complessità della vita.
Guardare con occhi liberi, come avviene nelle fotografie qui riportate, cercando tracce di altre memorie, diverse dalla propria, è un modo per cercare altra vita e per trovare domani le cose che oggi ancora non sappiamo vedere.
Questo rischio di chiusura non avviene solo sul piano sociale. Anche sul piano personale l’eccesso di memoria può bloccarci. A volte la memoria ci ossessiona, non ci consente di guardare avanti. Come una catena, essa ci blocca nel rimuginare il passato e non ci consente di concepire nuove esperienze, di affrontare la vita costruendo il nuovo. Ci impedisce di crescere.
Così come non si cresce senza memoria, così non si cresce se ci si lascia andare alla memoria in modo circolare, senza controllo riflessivo, senza innescare il piano più alto della spirale che ci consente di proseguire nel nostro cammino, per dare un senso a quel breve tratto della vita compreso tra ciò che c’è prima di noi e ciò che viene dopo di noi.
Non a caso la nostra memoria è selettiva e ci restituisce solo le cose che sappiamo accettare di noi stessi. E’ una forma di sopravvivenza per reggere l’angoscia della vita e delle scelte che compiamo ogni giorno. E’ un modo di selezionare i ricordi che ci permette di andare avanti, rimuovendo e lasciando all’oblio i nostri errori o i nostri dolori, che non riusciamo ad affrontare. La memoria in questi casi ci sottrae al senso di colpa che la nostra fragilità non ci consente di reggere. Quando ci sentiamo inadeguati e non abbiamo il coraggio di scendere nel profondo per fare i conti con noi stessi e con il peso della nostra libertà, è la memoria che ci viene incontro e ci aiuta a sopravvivere alla nostra imperfezione, selezionando solo ciò che riusciamo a sostenere di fronte al dover essere. E’ la memoria che ancora una volta ci aiuta a proseguire facendoci vedere solo ciò che possiamo permetterci di vedere.
Memoria e nostalgia
Ma non sempre riusciamo emotivamente ad affrontare la vita in modo lineare e spesso la memoria sconfina nella grecità del nostos (ritorno) algos (dolore), nella nostalgia, cioè nel dolore inappagato del ritorno. Proprio quando il futuro diviene più incerto, quando ci sentiamo più fragili, quando i giorni che rimangono diventano insicuri e quelli passati più numerosi, la memoria spesso si sovrappone alla nostalgia. Ci aggrappiamo a ciò che eravamo e avremmo voluto o potuto essere: calciatori, poeti, giovani, padri, madri, col futuro davanti, con meno passato alle spalle. Pensiamo a cosa avremmo potuto essere e non siamo stati. Ci aggrappiamo a qualcosa nel quale abbiamo sognato e creduto, torniamo alle nostre speranze. La memoria diviene al contempo veicolo, ma anche antidoto della nostalgia.
Veicolo perché è proprio la memoria che ci consegna alla nostalgia e al dolore di non poter tornare indietro. Ma è anche antidoto perché dolcemente ci permette di far fronte al dolore per il rimpianto, consentendoci almeno con i ricordi di compiere quel viaggio all’indietro, di farci tornare alle nostre scelte e farci illudere che avremmo avuto un’altra possibilità, un’altra vita da sognare. In fondo ci consente di tornare non solo a ciò che eravamo, ma anche a ciò che non siamo stati: a quella vita altra che non abbiamo vissuto e proprio perché ignorata, possiamo solo immaginarla.
Nella nostalgia è insita proprio l’ignoranza di ciò che è accaduto in nostra assenza e non a caso ad esempio per gli spagnoli “anorar” si traduce con “provare nostalgia”. E’ l’ignorare le cose che si trasformano. Siamo noi, i luoghi e le persone che trasformiamo nella nostra assenza. E’ proprio questa ignoranza che ci permette di costruire un ricordo e un pensiero che non sono realtà. Non è solo un difetto di memoria quello che ci sorprende diversi quando torniamo nei luoghi ai quali siamo legati o incontriamo di nuovo persone un tempo care. In quei frangenti non è solo la memoria selettiva che ci fa sentire così diversi da come avevamo memoria. E’ il non conoscere ciò che accade durante il periodo della nostra assenza che ci permette di elaborare un’altra realtà, mentre la vita e il tempo trasformano noi e gli altri.
Spesso poi non è solo la nostra memoria diretta a farci viaggiare all’indietro con i ricordi (o nel sogno che l’ignoranza consente), ma anche la memoria di altri e delle epiche che noi non abbiamo vissuto, ma che comunque sono parte di noi. Sono le storie dei ritorni di Ulisse nell’Odissea o di Ruth nell’Antico Testamento, ma anche semplicemente le vicende storiche che altri hanno narrato. Quando si è di fronte al grande prato delle Termopili è il racconto di Erodoto a darci memoria di un’esperienza che non abbiamo vissuto e che nessun segno fisico ci può oggi raccontare: la sola potenza del racconto ci fa sentire viva una memoria collettiva e ci permette di tornare a duemila e cinquecento anni fa.
Proprio come i racconti della nostra tradizione operaia ci consentono di tornare indietro di mezzo secolo e sentire nell’aria le sirene e i colpi degli attrezzi quando osserviamo le fotografie delle Officine Reggiane abbandonate.
Ma in fondo è solo così che possiamo avere il coraggio di allontanarci dalla nostra base sicura: avendo la memoria per poter ritornare e l’ignoranza che ci accompagna nel viaggio. L’epica della nostalgia descritta nel mito di Ulisse si accompagna sempre al coraggio della partenza ma anche alla fatica del ritorno inscritto nel destino dell’uomo. L’angoscia dell’infinito della linea retta della vita trova gli anticorpi nei nostri archetipi: il ritorno come simbolo della finitezza della vita. In questa dialettica tra noto ed ignoto, tra finito ed infinito, tra il coraggio di proseguire e il desiderio di ritornare, sta il senso delle nostre scelte e del nostro crescere.
E’ la memoria che ci aiuta a costruire il senso del nostro rapporto con i luoghi, le cose e le persone.
Memoria e senso della vita
In questa relazione tra noi e l’altro (luoghi, cose, persone) è, però, fondamentale provare a invertire la prospettiva. Se è vero che la memoria ha un valore straordinario per dare senso alla vita nella relazione col sé, è altrettanto interessante osservare come la memoria sia capace di dare senso alla nostra vita anche nella relazione con l’altro. Se ci pensiamo bene, quando parliamo di memoria non solo facciamo riferimento alla nostra memoria dell’altro, ma spesso ci chiediamo quale memoria l’altro avrà di noi. Nel nostro pensiero vive la speranza di essere ricordati, di lasciare una traccia. E’ la ricerca di un nostro appunto glossato nei vecchi libri per vedere se le pagine si ricordano di noi, è l’altalena o lo stabilimento balneare che ci hanno visti ragazzi ai quali chiediamo di farci da specchio, è cercare noi stessi nella vecchia casa, è la speranza di lasciare un ricordo nel pensiero di chi non vediamo da tempo, è chiedere alle fotografie degli antenati se dentro di loro c’è una parte di noi che ci renda meno finiti. La relazione è bidirezionale: l’altro attiva il nostro ricordo, ma al contempo cerchiamo sempre nell’altro se sono rimaste tracce del nostro passaggio. Lasciare un segno della nostra esistenza diviene forma di sopravvivenza all’angoscia della finitezza della vita e missione implicita della nostra esistenza.
Ancora una volta, cioè, stiamo chiedendo alla memoria di dare un senso alla nostra vita e di aiutarci a reggere l’angoscia del vivere. Alla memoria chiediamo dunque non solo di aiutarci a crescere, di condurci nel ritorno verso il nostro porto o di permetterci di accettare le scelte che abbiamo fatto, ma anche di consegnarci i segni del nostro passaggio nella vita. La memoria è dunque, in questa prospettiva, anche la paura che gli altri o le cose non abbiano memoria di noi. E’ forse la paura di essere dimenticati o di non lasciare un segno di noi nel breve tratto della vita. E’ la nostra fragilità che cerca nell’altro che ci ha conosciuto le conferme della nostra identità.
In fondo è il bisogno di sentirsi unici, è il bisogno di rifiutare l’idea di essere una sola unità dei sette miliardi di persone che vivono tutti i giorni nel nostro pianeta. Per questo ognuno di noi è convinto di avere una storia speciale da raccontare, per raccontare prima di tutto a se stessi la propria esistenza unica.
In realtà, se acquisiamo un minimo di umiltà, ci accorgiamo di essere parte di grandi storie collettive: i miti e le grandi narrazioni, appunto, che rappresentano la storia di ognuno di noi. Ma non solo. Ci sono segni che riteniamo proprietà della nostra memoria, ma che se li osserviamo da più angolature rappresentano non solo le memorie di altri individui, ma anche le memorie collettive di culture diverse.
Sono segni che appartengono all’umanità intera e non solo a noi stessi.
Le scarpe in fondo al letto della campagna reggiana le ho viste uguali nei racconti di Enzo Bianchi sulle campagne del Piemonte. Lo stesso biliardino con i giocatori in legno, grandi come birilli, si può trovare nelle sale rumorose dell’Oveja Negra in piene ramblas di Barcellona. A Ragusa Ibla gli antenati appesi alle pareti hanno le stesse facce dei reggiani e solo quando il quadro è leggermente staccato dal muro hanno un significato diverso dalla richiesta di protezione. La sedia sul terrazzo assolato con i fili per stendere la biancheria è forse la stessa che qualche anno fa era in un terrazzo di Matera o di Kalymnos.
In questo senso anche i luoghi della memoria potrebbero essere intesi come non luoghi: potrebbero essere ovunque. Ma in realtà sono luoghi eccome, e sono solo nostri (anche se sono di tutti) proprio perché ciò che fa la differenza è la densità delle relazioni che corrono vibranti tra noi e loro. Quei luoghi diventano così luoghi nostri e al contempo di tutti.
E’ l’appropriarci di questi luoghi che ci permette di affrontare la banalità della nostra esistenza e insieme è l’appropriarci di questi luoghi che permette ancora la banalità del male di chi, per potersi sentire unico, si sente così diverso da rifiutare di dividere un destino comune a tutti noi.
A propos des photographies en couleur de Bruno Cattani
Dans son œuvre photographique en noir et blanc, Bruno Cattani adoptait une attitude originale face aux œuvres d’art en s’intéressant aux effets qu’elles produisent sur le public amateur. La visite des lieux d’exposition, la vie même des œuvres constituaient une approche où la photographie rivalisait avec la recherche théorique.Ses œuvres récentes, entièrement consacrées à la couleur, s’orientent dans une toute autre direction. La thématique, tout d’abord, s’attache au souvenir et à la nostalgie : des images d’enfances, de lieux abandonnés, de jouets anciens sont empreintes d’une tonalité qui fait penser aux premiers films en couleur de l’histoire du cinéma. Par ailleurs, la composition de la collection d’images ainsi réalisée, ne s’arrête pas à un sujet visuel particulier, mais promène le regard du spectateur vers des endroits et des objets différents.Si chacune de ces photographies prise en particulier nous plonge dans un univers intime, étrangement familier, une vision d’ensemble nous invite à rechercher le sens construit par la juxtaposition de ces vues qui se regroupent en plusieurs séries.Dans un premier groupe d’images, constitué par des lits de chambres d’hôtel, règne une atmosphère de blancheur presque monochrome : avec délectation, l’objectif enregistre précisément les moirures de l’ombre sur le plissé des draps abandonnés par les corps qui durent rêver en ces lieux. C’est à partir de ces photographies un peu pâles, différentes des autres beaucoup plus colorées, que le rêve apparaît comme le principe qui guide l’inspiration de Bruno Cattani.Ainsi, une autre série d’images montre des antichambres ; certaines sont de véritables sacristies garnies de meubles et de statues pieuses démodées, ou des salles qui y font penser, remplies de bibelots, attenantes à une galerie de musée ou à l’office d’un barbier orné de pages de Playboy. L’exploration de ces coulisses du rêve se poursuit avec les restes délabrés d’un ancien hôpital où quelques objets oubliés trainent encore : une mallette en cuir de chirurgien, un crucifix rongé par la vermine, une jaquette en marocain vermoulu, béante, contenant plusieurs feuillets (peut-être l’histoire d’une vie, le journal d’un fou ou tout simplement un livre de compte…) Ces salles presque vides et rongées par le temps illustrent par métaphore une psychè abimée qui étalerait au grand jour les petits riens enfouis dans la mémoire à partir de quoi se fabriquent les rêves.Dans cette logique onirique, les photographies d’enfants surgissent comme des souvenirs archaïques, troubles dans le mouvement flouté d’un manège tournoyant, vaporeuses comme cette scène de plage où une petite fille dirige son cerf-volant au-dessus des nuages. Et, à ces images d’enfance s’adjoignent celles de petits bonshommes de baby-foot, de pantins démantibulés comme on en fait plus et d’un petit vélo qui ressemble encore à une draisienne. Les photographies de Bruno Cattani puisent très loin dans les souvenirs : reliques, ex-votos, daguerréotypes d’ancêtres et moulages d’antiques en vrac accumulent tous ces matériaux du rêve dont on ne se souvient plus une fois réveillé.Nombreuses aussi sont les images d’images pieuses, issues d’un autre temps, introduites par ce geste de Vincent de Paul pointant du doigt son crucifix. Au cœur du rêve, la photographie tient lieu d’épiphanie avec une série de gros plans sur des tableaux voués au Sacré-Cœur de Jésus.Ces multiplicités de points de vue abordant des sujets en apparence étrangers les uns aux autres trouvent une entière cohérence dans cette contribution de la photographie à une mécanique des songes. Quelle autre approche que la photographie, technique appropriée au souvenir du présent, pouvait mieux rendre compte des formations fantasmatiques ? Avec une sensibilité émouvante et une maîtrise parfaite du cadrage, Bruno Cattani aborde poétiquement l’univers onirique, le déploie dans ses recoins les plus cachés en portant son regard sur le monde. Praticien du rêve, il éveille alors la nostalgie en laissant son spectateur rêveur devant le rêve, par des images qui le touchent jusqu’à remuer ses souvenirs au point que ces visions lui semblent émaner de sa mémoire et de son imagination propres.
La fotografia è, nella sua intima struttura, strumento di registrazione, di conservazione, di diffusione e di recupero delle memorie individuali e collettive. Le immagini dei fotoreporter ci hanno svelato splendori, e più spesso miserie e orrori, della cronaca e della storia del mondo; la fotografia naturalistica ci ha restituito l’incanto del pianeta, nei suoi angoli residuali, emblemi di ciò che è perenne, essendo stato preservato nello scorrere del tempo e nel succedersi delle civiltà, e, al contrario, la desolazione di aree, urbane o non, modificate dall’intervento umano, o che appaiono sotto scacco, assediate da un’incoscienza e da un egoismo ciechi, incapaci di pensare il mondo e la natura come un organismo armonico. Le immagini “private”, da quelle che documentano una qualche solennità familiare a quelle “rubate” in un particolare momento, e le stesse foto-tessera, raccontano e salvano dall’oblio volti e corpi; le cartoline da spedire da un luogo di vacanza per dire “sono qui, ma non ti ho dimenticato” fissano la memoria di un paesaggio che talvolta è poi andato perduto, nello scontro con la macchina del tempo e di ciò che chiamiamo progresso. Certo, mai si può dimenticare che la fotografia, nel momento in cui pretende di sottrarre un frammento di vita e di realtà all’inesorabile scorrere del tempo, in verità ce lo consegna ossificato, lacerto di qualcosa che non c’è più.
Georges Braque (1), in una lettera a Guillame Apollinaire, annotava: “La pittura è sempre più vicina alla poesia, ora che la fotografia l’ha liberata dal bisogno di raccontare una storia.” Braque, artista grandissimo e pensatore di rara intensità e sottigliezza, non considerava che la fotografia avrebbe saputo liberarsi dalla camicia di forza in cui la si voleva confinare, e avrebbe imboccato – anzi, già lo aveva fatto alla fine dell’Ottocento con le esperienze dei fotografi pittorialisti – la strada dell’appropriazione di un intrinseco valore estetico che la riavvicinava a quelle espressioni artistiche, la pittura e la scultura, che si erano illuse di poterla tenere alla larga da sé, in quanto mezzo strutturalmente “inferiore”. Ecco allora che la fotografia – se si escludono certe esperienze di pura ricerca estetica, alle quali non interessa in alcun modo il rapporto con il reale: penso agli interventi, con biffures, lacerazioni o sovrapposizioni, sul negativo, concepito in questo caso come mero supporto che genera un’immagine, alternativo a quelli tradizionali quali la lastra incisa o la pietra litografica – si carica di una ambivalenza: resta legata al reale e alla sua riproduzione, ma ce lo restituisce trasfigurato, attraverso uno sguardo che, caricandosi di sentimenti interiori e di cultura estetica, debella una volta per tutte il presunto carattere della fotografia stessa, mero strumento meccanico e automatico generatore di immagini, quasi “inconsapevolmente” rubate al reale. Ci siamo da ormai lungo tempo resi conto che le immagini che la fotografia ci consegna hanno un retroterra assai più complesso, ricco e vitale, come ci dimostra questo ciclo sulla memoria realizzato da Bruno Cattani.
Sappiamo che la memoria è, nell’individuo, un processo cognitivo ed emotivo di non del tutto dischiusa complessità: si assimilano determinate cose, le si conserva e poi, talvolta, le si estrae dai misteriosi cassetti in cui erano state collocate – un processo variamente fluido, che, come avviene nella narrazione del mito, può arrivare a modificare il ricordo ogni volta che viene riesumato. Sappiamo anche, tra le tante conoscenze che si potrebbero citare, che a volte ciò che abbiamo immagazzinato dentro di noi non si manifesta in una visione, in un’immagine più o meno nitidamente emersa, ma attraverso un comportamento, un nostro modo di fare e di vedere, di cui siamo in fondo inconsapevoli. Sappiamo infine – Sigmund Freud docet – che possiamo attivare dei meccanismi di autodifesa dalla facoltà di ricordare: qualcosa può essere dimenticato, rimosso, perché l’oblio è, in quel caso, meno doloroso del ricordo. Accanto a quella che possiamo considerare una memoria individuale, c’è il vasto campo della memoria sociale e collettiva, che peraltro ha nel tempo contribuito ad alimentare un’idea non tradizionale del “fare storia”, di ricostruirne la coralità vera: è da tempo evidente che le società che non coltivano la propria memoria, o che addirittura la oscurano, che non sanno darsi una memoria minimamente condivisa, sono intimamente malate, strutturalmente fragili, destinate a imboccare strade senza uscita, tanto più che è diventata sempre più diffusa l’idea che solo la consapevolezza e la nitidezza della propria memoria ci consentono di avere radici, e dunque di potere pensare e progettare il futuro. Il termine “memoria” va allora maneggiato con circospezione e con cura; l’uso inflazionato che se ne è fatto negli ultimi decenni ha tuttavia avuto il merito di tornare a gettare luce su un elemento essenziale delle esistenze personali e della vita delle società, ma ha sviluppato, nel senso comune, una genericità e una superficialità di approccio che tendono a non cogliere le differenze in processi già di per sé complessi e oscuri.
Bruno Cattani ha dato l’impegnativo titolo di Memoria a questa sua ricerca fotografica, avviata alcuni anni fa con la ricognizione su alcuni scorci della sua città natale, Reggio Emilia, e poi proseguita e sviluppata in altri rivoli, com’era forse alla fine inevitabile, dato il tema non certo circoscrivibile con cui ha scelto di misurarsi. Ecco dunque davanti a noi una serie di fotografie di una qualche eterogeneità: da quella iniziale di un uomo seduto, di cui non conosciamo il volto, che pare intento a ricordare – o che forse ha perduto il bene prezioso della memoria e che guarda immemore nel vuoto... –, e di un cane che invece ci scruta – anche lui potrebbe essere coinvolto in una operazione mnemonica (la memoria di qualcuno che fotografa...) o semplicemente sta attivando quel riflesso condizionato rivelato dagli esperimenti di Ivan Pavlov –, fino alla fotografia che chiude il catalogo, nella quale una porta si dischiude su un antro buio e sfocato – il luogo dove si nasconde e si conserva la memoria? –, in una sorta di processo circolare di immagini in cui fine e principio si rincorrono, s’intersecano, si alimentano reciprocamente di senso, di evocazioni, di riferimenti.
Certo, ci sono diverse tipologie di immagini, in questo lavoro di Cattani. Ci sono frammenti di paesaggi della città e della campagna, del mare e della montagna, nelle quali il mondo pare spesso visto attraverso una sorta di filtro che opacizza l’immagine, la rende insieme meno nitida e più penetrante, rivestita com’è di un sentimento dolente e struggente del tempo: quel filtro sono gli occhiali della memoria, che indossiamo quando ci capita di guardare qualcosa che immediatamente fa affiorare in noi un certo ricordo lontano, magari al limite tra ciò che è conscio e ciò che resta nell’inconscio, o alla metà del transito. Allora, è come se la fotografia che stiamo scattando fosse l’esito combinato di due sguardi: quello, lontano nel tempo, che in noi si è risvegliato, e quello attuale, che ci induce a fissare quella immagine, che diventa così l’esito di una sorta di una sovrapposizione tra passato e presente, tra due modi di vedere il mondo. Sono, molte di queste immagini, state scattate a Reggio Emilia, lungo strade, in angoli, che Bruno conosce benissimo, che ha percorso nelle stagioni dell’anno e della vita, e che ora si colorano di questo tono elegiaco, il colore di qualcosa che è perduto, che non può ritornare, il colore della memoria. Paiono, queste immagini e alcune delle altre del ciclo fotografico di Cattani, la visione che un esiliato potrebbe avere della propria patria, o evocazioni che vengono da lontano, richiamate da un mondo “altro” in cui forse, un tempo, abbiamo abitato. C’è, in esse, questa sorta di sentimento lancinante della lontananza, di desiderio di un fare ritorno che si sa essere impossibile, eppure di dolente felicità, di pacificazione, come se, finalmente, quelle immagini fossero l’approdo alla verità ultima della vita. Si respira, in molte di queste fotografie, la consapevolezza che Braque aveva nel tempo maturato: “La sola cosa che ci rimane è quella che ci tolgono, ed è la cosa migliore che possediamo.”
È arduo dare conto di tutte le immagini che suscitano in me un fascino particolare, a partire da quelle dei piccioni sul selciato della piazza su un lato della quale s’erge la nostra Cattedrale, e degli uccelli che hanno interrotto il volo, fermandosi su alcuni fili elettrici e dando misteriosamente vita a una composizione che pare una scrittura di note tracciata su un pentagramma. Altrettanto intense sono, per me, alcune immagini che mi è impossibile dimenticare, dentro un’aria di crepuscolo e di caligine: le panchine nei giardini pubblici di Reggio, lungo un sentiero dell’addio, con una figura che s’allontana sullo sfondo e che sta per essere ghermita dal buio, ormai confusa dentro l’oscurità degli alberi; le panchine e i tavoli che respirano desolazione in un giardino abbandonato di Colorno; la testa del drago che vigila su un angolo della Galleria Parmeggiani della nostra città, con due passanti che stanno perdendo la propria identità sullo sfondo; l’incanto di ciò che non è più (la scacchiera del selciato di Piazza Fontanesi a Reggio), ucciso dalla futile illusione di rincorrere un effimero moderno che raramente riesce a rivaleggiare con la sapienza e la bellezza di un antico né casuale né improvvisato; la solitudine delle due persone sedute sotto un albero spoglio ai bordi del lago di Molveno; lungo le rive dello stesso specchio d’acqua, il paesaggio lunare con le figure erranti che paiono essere sopravvissute a un cataclisma che ha investito il pianeta e cancellato ogni opera dell’umano; il vecchio gasometro di Roma, che evoca in me i disegni di Renzo Vespignani dell’immediato dopoguerra, quando l’artista rappresentava lo squallore del paesaggio urbano di periferia e delle vite di chi lì abitava; la storica bacheca dell’“L'Unità” in via Toschi a Reggio, sul muro della Torre municipale del Bordello. Ci sono alcuni elementi comuni in molte di queste fotografie: una prospettiva allungata, figure che si stanno perdendo nella lontananza, dentro una foschia, un’indefinitezza, un calare dell’intensità della luce che paiono una metafora dell’impossibilità di ricordare nitidamente.
Altri nuclei di immagini che Cattani ha riunito in questo ciclo rivisitano il tempo dorato dell’infanzia – la giostra; l’incanto del circo; il mare che ci rivelò l’infinito, l’incommensurabile; le reliquie del gioco (un cavallo di legno, un triciclo) che giacciono abbandonate nei solai; la scoperta, nelle visite scolastiche ai nostri Civici Musei, della forza segreta della natura attraverso il capodoglio imbalsamato – e quello inquieto dell’adolescenza – il mitico bigliardino; il ping-pong; la porta di un campo di calcio ora invaso dall’erba, memorie di eccitazioni e di cimenti, di corse ebbre, fino allo sfinimento, fino e oltre il limite della sera che calava e che imponeva, quando le prime luci s’accendevano, di fare ritorno a casa. In alcune fotografie Cattani ha condensato lo sguardo e la memoria delle stagioni: le foglie che, all’esterno o penetrate addirittura fin dentro le stanze degli edifici, ci parlano di un abbandono, di un congedo dalla vita; le nebbie persistenti dell’autunno; il pupazzo di neve dentro la luce, che tutto sembra cancellare, di una giornata di sole nell’inverno; il verde stordente di certi paesaggi estivi o la luce folgorante di certe giornate primaverili. E c’è, in altre fotografie della mostra e del catalogo, il riemergere di una memoria che parla attraverso reliquie che sono sopravvissute al naufragio dei luoghi, all’abbandono in cui sono precipitati fabbriche, abitazioni, manicomi – nello specifico, quello di Novara, nel quale una borsa, sedie e poltrone abbandonate evocano il passaggio dell’umano, si fanno eco di sofferenze e di dolori che segnarono il corpo e la mente di chi vi era rinchiuso –, una vecchi falegnameria di Siena con il lenzuolo bianco sulla sedia, evocazione di uno dei motivi della pittura ultima di Gianfranco Ferroni. C’è la dolce memoria dell’amore, e la impietosa memoria delle ossessioni che turbano e segnano le vite, attraverso la concentrazione straniante di orribili riproduzioni di sculture dell’antichità, destinate a dare corpo all’illusione dei turisti di conservare la memoria e lo spirito di un luogo, di piante grasse che fanno corona a un Cristo sperduto e di calendari allineati dietro la sedia girevole di un barbiere – con la sotterranea metafora, qui, del conflittuale passaggio dall’eternamente nuova rivelazione del proprio volto, visto allo specchio, allo sguardo sulle donne che incarnano un canone diffuso, sognato, di bellezza. E ci sono, infine, fotografie vagamente claustrofobiche e inquietanti: le immagini religiose che s’intravedono nelle chiese o in una sagrestia, con un crocifisso che sta all’altezza delle labbra di chi si mette su un inginocchiatoio; il bambino Gesù che attende, avvolto nel cellophane, il prossimo presepe; l’intensa immagine un Cristo amputato delle gambe e di parte delle braccia che giace abbandonato contro un muro, tra un giaciglio di foglie. E ci sono due immagini particolarmente significative, in cui s’incarna la memoria di culture e passioni terrene, e di una fede religiosa, che talvolta arrivarono a esprimere tensioni convergenti. Da un lato, ecco la figura, ormai sbiadita, in una vecchia trattoria della Bassa reggiana, dipinta su una porta – l’anonimo pittore ha sentito la necessità di riprodurre l’icona di uno degli uomini in cammino ne Il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo –, con sopra lo stipite di un’altra porta, questa volta chiusa, il cartello indicatore “Aperto” metaforicamente spezzato in due: traccia e memoria di una “fede”, quella generata dalla predicazione di Camillo Prampolini, così radicata nella nostra terra, e che fu all’origine di esperienze sindacali, di amministrazione della cosa pubblica e di imprenditorialità cooperativa. Dall’altro lato, ecco, in una casa della Bassa parmense, una pergamena che reca una scritta in latino, con sullo sfondo il barlume di un’anziana donna, ultima custode e guardiana di un messaggio oggi ai più indifferente. Sono, entrambe queste immagini, lacerti di un passato che fatica a riprendere la parola dentro le illusioni di un moderno spesso triviale e senz’anima.
Queste fotografie di Bruno Cattani sono rivestite di colori mai gridati, tenui, che esprimono quasi un desiderio, una tensione al bianco e nero, con una sorta di alone scuro ai bordi dell’immagine, rafforzato dal riquadro nero che le incornicia: anche questo contribuisce a una presa di distanza, a un senso di lontananza nel tempo, come se queste visioni si fossero spogliate, nel loro viaggio dentro il tempo, di ogni orpello o belletto superflui. Anche la costante presenza, dentro l’immagine, di zone a fuoco e di altre sfocate non è solo una sollecitazione per il nostro nervo ottico, sottoposto a continui esercizi di agilità, ma il segnale di una duplicità della visione che non è appunto meramente ottica, ma psicologica. Come già abbiamo detto, quello che noi vediamo in queste fotografie è un reale filtrato e distorto dagli occhiali della memoria, dai trasalimenti di un cuore – quello di chi ha fotografato e quello di chi ora guarda e si trova sintonizzato sulla stessa lunghezza d’onda – che misura la distanza incolmabile tra il presente e un tempo lontano, forse per sempre perduto.
Georges Braque, giocando sull’assonanaza perfetta delle parole della lingua francese (“écrire/décrire”, “peindre/dépeindre”) che solo in parte possono essere conservate nella traduzione in lingua italiana, ammoniva: “Scrivere non è descrivere, dipingere non è rappresentare con esattezza”. Anche fotografare, potremmo aggiungere, non è accanirsi a rubare un frammento di realtà, esattamente identico a un presunto vero, ma sapere restituircelo, attraverso una sorta di trasfigurazione, nella sua essenza di qualcosa che si trova sempre in relazione con il mondo e con un sentimento dello sguardo. Bruno Cattani dimostra, ancora una volta in questo suo ciclo, che è possibile praticare questo tipo di fotografia, come del resto ha ripetutamente dato prova nelle sue prove precedenti, quali, ad esempio, quelle che si sono misurati con i corpi e i volti della scultura. È questa la fotografia che resta, quella che non teme di misurarsi con forme di espressione artistica di ben più lunga e solida tradizione, quella che sa riconsegnarci e preservare nel tempo, attraverso un frammento del reale, i palpiti di vite e di momenti che più non sono.
(1) Le citazioni di Georges Braque - artista cui chi scrive ha intenzionalmente dedicato la mostra di apertura di Palazzo Magnani nel 1997 - che costituiscono una sorta di contrappunto e di filo conduttore nel dipanarsi di questo testo sono tratte da Georges Braque, Le Jour et la nuit. Cahiers, 1917-1952, Gallimard, Paris 1952; alcune sono già state pubblicate nel catalogo della sopracitata esposizione.
Freud “Il poeta e la fantasia”
Le fotografie di Bruno Cattani ci fanno entrare nella poesia del mondo dei bambini; i bambini sanno trasformare il mondo, partendo da piccole cose, da oggetti che, mentre i bambini giocano, diventano altro, assumono nuovi significati e prendono vita . Questa magia accade in ogni luogo dov'è un bambino che gioca, in casa, nel nido, nella scuola dell'infanzia, nella stanza di psicoterapia infantile e accade da sempre, in ogni tempo, come testimoniano i giocattoli nelle tombe egizie di migliaia di anni fa, fino all'età contemporanea dell'industria dei giocattoli e dei personaggi dei cartoons. Cattani è riuscito a cogliere gli oggetti-giocattolo dopo che sono stati trasformati dal gioco dei bambini. I giocattoli in sé, se non sono stati usati, giocati, non hanno vita, sono tutti uguali, sono oggetti concreti, ma se un bambino li ha toccati, amati, sbattuti, trasformati, vivono; i segni delle emozioni, delle fantasie che hanno rappresentato nel gioco e che il bambini hanno vissuto attraverso di loro, lasciano una traccia, che si vede e che si “sente”, nel colore, nella forma, nella posizione in cui sono rimasti. E' questa la poesia della fotografia di Cattani, perchè coglie e rende visibile l'incantesimo di queste tracce . Sono tracce di piacere, di gioia, di avventura, di coraggio, ma anche di paura, di tristezza, di angoscia.
Tra i giocattoli alcuni sono particolarmente preziosi per i bambini : la foto del piccolo orsetto bianco, tenero e triste, molto “vissuto” mi ha ricordato le parole di una bimba che racconta l' amore per il suo orsetto Dodo... un grande amore che solo i bambini conoscono, l'amore per l'”oggetto transizionale “ :
…..Il mio orsetto Dodo vuole tutti i giochi, dice :”Dammi dammi!” Perchè li vuole tutti lui, poi mi guasta la torre, e io lo sgrido, ma solo un po' perchè poi diventa triste e si mette il dito in bocca come l'Elisa. Gli voglio tanto bene e lui vuole bene a me !
Alessia 32 mesi
L'oggetto transizionale è sempre esistito, ma Winnicott, pediatra e psicoanalista, ha rivelato l' importanza che ha per lo sviluppo dei bambini e gli ha dato il nome di oggetto transizionale per spiegarne il significato. Il primo mondo che il neonato scopre è la madre. Tutto il rapporto del bambino con la realtà è l'effetto della scoperta e del riconoscimento della madre e di sé stesso; è in quest'area che nasce il “giocare”. Il primo giocattolo è l'oggetto transizionale : un pezzo di qualcosa di inanimato, un pezzo di copertina di lana, un lembo di sciarpa di seta, l'angolo di un lenzuolino, un orsetto di peluche . Il bambino lo vuole sempre con sé, lo stringe, lo succhia, lo sciupa, lo deforma, fino a renderlo irriconoscibile; irriconoscibile per tutti tranne che per sè, perchè è diventato suo, è la sua mamma e sé stesso insieme, è il suo primo vero giocattolo.
Quando la mamma non è presente, ma è mantenuta viva nella relazione con l'oggetto transizionale, il bambino giocando costruisce il proprio spazio, che non è lo spazio della separazione, né della fusione con la madre , ma quello spazio fisico e mentale in cui trova risposta la domanda che Alice formulò all'inizio del suo viaggio chiedendosi : “Chi sono io?”.
Quel piccolo oggetto è lì per ristabilire la continuità minacciata, conforta il bambino evocando nella sua morbidezza, nel suo odore, il senso di protezione che originariamente gli derivava dall'essere tutt'uno con la madre. Il bambino è solo ma non si sente solo, impara ad esistere senza la madre, costruisce la propria identità. L'oggetto transizionale, come ogni giocattolo che poi verrà, è un'illusione ma è anche qualcosa di reale, è la possibilità di realizzare l'illusione, di rendere reale il desiderio, il sogno. L'identità del bambino si costruisce tra la realtà e il sogno, attraverso il desiderio, giocando.
Nel gioco i bambini riproducono simbolicamente fantasie, paure, desideri, esperienze, e nel farlo si servono dello stesso linguaggio e della stessa forma di espressione arcaica e filogeneticamente acquisita che ci è ben nota nei sogni. Il gioco del bambino si può assimilare al sogno dell'adulto. Le fantasie consce e inconsce del bambino e le sue rappresentazioni mentali trovano nel gioco la loro messa in scena, così come il sogno è la messa in scena della fantasia inconscia dell'adulto. “ Noi possiamo capire completamente ciò che i bambini esprimono con il gioco se lo affrontiamo col metodo elaborato da Freud per svelare i sogni" (M. Klein) . Lo strumento essenziale per la psicoterapia infantile è il gioco, mentre la psicoanalisi degli adulti è fondata sui sogni..
Si pensa che sia impossibile fotografare i sogni, Cattani riesce a fotografare i sogni dei bambini . La fotografia della carrozzina con la bambola è la fotografia di un sogno: il sogno della bambina o del bambino che ha giocato con quella carrozzina e quella bambola immaginando di essere il bimbo “piccolo” nella carrozzina e, contemporaneamente, seduto, diventa “grande” come la mamma che guida la carrozzina. I sogni infatti non seguono la logica del prima e del dopo, riescono a rappresentare in una sola immagine elementi contrastanti, addirittura opposti, l'essere piccolo e voler diventare grande.
La fotografia che mi è parsa più “sognante” raffigura il giocattolo-balena.
Ma per parlare della balena, dobbiamo accennare al concetto di inconscio collettivo (Jung). Secondo la psicoanalisi esiste l'inconscio personale che contiene emozioni, pulsioni, memorie rimosse a forte tonalità affettiva ed esiste un inconscio trans-personale, collettivo, comune a tutti gli uomini e le donne di una medesima cultura e, per alcuni aspetti, di ogni cultura.
L' "inconscio collettivo" è costituito dagli 'archetipi', forme di funzionamento della psiche profonda che hanno una vita immutabile nel tempo, vengono ereditati geneticamente ed influenzano notevolmente il concreto operare dell'uomo.
I giochi dei bambini e le fiabe sono il “regno” degli archetipi e la balena è un archetipo. Già nella Bibbia il profeta Giona viene inghiottito e protetto da una balena nel suo enorme ventre ; Pinocchio passa attraverso varie fasi e il suo discendere verso stadi inconsci è progressivo, prima il viaggio nel paese dei Balocchi (i giocattoli ), poi l'essere inghiottito, immerso nel ventre della balena, che è la dimora sicura del povero Geppetto, suo padre . L'immersione è la regressione, il ritorno al ventre materno, ma anche la paura dell'essere inghiottito, riportato indietro. La balena fotografata da Cattani sembra dondolarsi dolcemente sullo sfondo di un mare/cielo lontano come la nostalgia della vita prenatale. Ma c'è un'altra fotografia sognante che unisce la balena (l'essere dentro alla madre) con l'aereo che, guidato da un coraggioso e forte pilota, può volare nel cielo, far crescere, essere libero e forte. Volare è un altro archetipo, rappresenta il superare ogni limite. Nel gioco i bambini oscillano continuamente tra ritornare piccolo ed essere protetto e diventare grande, libero e forte. Nella fotografia della balena e dell'aereo che giocano insieme, questa “oscillazione” è rappresentata magicamente.
I giocattoli rappresentano spesso i personaggi delle fiabe, antiche e contemporanee. I bambini rappresentano e inventano nuove fiabe giocando. Il bambino che si immerge nella fiaba sa, anche se in modo non chiaro e consapevole. che è una storia che lo riguarda, che è la storia della sua psiche, con tutti i conflitti interni di cui spesso egli si sente in balia.
La fotografia della marionetta del Gatto con gli stivali, inquietante, minaccioso e seducente, ci avvicina alla fiaba il cui protagonista è un animale personificato; guardando quell'immagine proviamo l'inquietudine del travestimento e della trasformazione, che spesso si incontra nei sogni e che i bambini usano sempre nei loro giochi.
Giocando il bambino utilizza oggetti del mondo esterno e li usa in modo simbolico per rappresentare e comprendere ciò che vive nel suo mondo interno. Tutto questo avviene sempre, spontaneamente nel gioco libero di tutti i bambini, in ogni tempo. In questo senso non c'è differenza tra i giocattoli antichi e i giocattoli contemporanei. Nelle fotografie di Cattani che ne colgono il significato simbolico del sogno, tutti i giocattoli ci affascinano, ci appaiono misteriosi, narrano una storia, anche i Puffi, i Barba papà, le Barbie e ognuno ci racconta una storia diversa.
Il piccolo Puffo con le corna da ariete e l'espressione “terribile” esprime tutta l'onnipotenza dei bambini quando vogliono sentirsi invulnerabili e conquistare il mondo . Utilizzo le parole di un bambino immaginando che abbia giocato con quel Puffo :
“Io ci do un pugno sul naso ai cattivi, i cattivi sono quelli che c’hanno la spada e poi io combatto con i cattivi, io li butto a terra facendo una lotta, lo calcio e io gli do' le cornate .”
F. anni 4,5
Sono sempre piccoli i giocattoli più minacciosi, i Gormiti, i Transformer, le rappresentazioni dei protagonisti dei cartoons, i piccoli mostri con le armi più tremende; sono piccoli perchè il bambino, per quanto sia piccolo, li possa manipolare, dominare, lanciare, “distruggere” e far rivivere.
Il giocattolo rappresenta il mondo che il bambino vuole conquistare e con il quale si misura (infatti è forte l'impulso a cercare di smontarlo per vedere com'è fatto, a distruggerlo e a ricostruirlo); ma è anche una proiezione , un prolungamento della sua esperienza quotidiana in famiglia, con gli amici. La bambina sgrida la sua bambola con le stesse parole con cui è stata sgridata dalla madre, per scaricare su di lei ogni senso di colpa, oppure la coccola e la vezzeggia per esprimere il suo bisogno di affetto.
L'istinto di vita e l'istinto di morte si incontrano continuamente nei giocattoli fotografati; la Barbie amputata di un braccio può rappresentare l'amica invidiosa, la mamma cattiva; le Barbie svestite, rivestite, incapsulate nei sacchetti trasparenti sembrano tante diverse identità femminili che i bambini e le bambine rappresentano nel gioco, fino alla Barbie con le labbra al silicone, che ci riporta all'immagine inquietante delle matrigne presenti in ogni fiaba, le matrigne che sostituiscono la mamma morta e abbandonano i bambini nel bosco.
Il giocattolo rappresenta dunque per il bambino un mezzo per esprimersi, per rappresentare i propri drammi. Attraverso il gioco il bambino impara a dominare e padroneggiare non solo il mondo esterno, ma domina e media l'angoscia del suo mondo interno, elaborando conflitti e fantasie.
L'incontro tra il mondo esterno e il mondo interno è spesso il bosco, la foresta, abitata da animali selvaggi e misteriosi.
Le fotografie degli elefanti, delle giraffe, degli animali selvaggi nella piccola “foresta” del giardino fanno immaginare bambini esploratori coraggiosi. Inventare storie di avventura con i giocattoli è naturale; la storia non è che il prolungamento, uno sviluppo, un'esplosione del giocattolo.
Ancora le parole dei bambini :
“...mi piace le storie che parlano di tigri, di giraffe, di rinoceronti, il mondo degli orsi, dei fenicotteri e le storie di paura“
M. anni. 4,11
“ ...a me mi piace la storia degli elefanti, le storie di animali della savana dell’Africa, del mondo dei dinosauri, di Piedino, della Valle Incantata, dei cervi,il mondo dei topi”
M. anni 4,5
Nel mondo dei giocattoli appaiono degli orsi di pelo o di pezza, cani di gomma, cavalli di legno, unicorni, dinosauri e ogni altro tipo di animale . Ognuno di essi assolve a una funzione affettiva, ma per spiegare del tutto il rapporto tra il bambino e l'animale-giocattolo bisogna risalire ai tempi lontani, nelle profondità del totemismo. Il primo rapporto dell'uomo con gli animali è stato di natura magica . Anche il bambino, nel suo sviluppo rivive qualcosa del totem che conserva, ad esempio, il dinosauro di plastica.
“ …..A me piace fare le storie con gli orsi, i lupi, di streghe, di stregoni e di giganti perché sono storie per grandi e a me mi piacciono molto perché sono per grandi e più imparo storie per grandi e più divento grande”
F. anni 4,10
Anche l'orsacchiotto di pelo rivive qualcosa del totem che conserva, e diventato adulto il bambino non dimenticherà del tutto il paziente animale, che continuerà a scaldarsi dentro di lui come un letto caldo.
Winnicott ci ricorda che il gioco va in scena nella realtà esterna, trasforma il pensiero privato in azione; non appena il bambino mostra questa parte nascosta di sè stesso e la condivide, la agisce, si sente molto più a suo agio nel mondo. Il gioco per il bambino non è passatempo spensierato, ma il lavoro fondamentale attraverso cui crescere ed alimentare il pensiero simbolico, lo spazio mentale.
Il giocattolo, il giocare, rappresenta la transizione tra il desiderio e la realtà, ne garantisce la possibilità. Il processo di transizione si gioca sul limite, un margine segreto e individuale dove si sperimenta una solitudine non pericolosa, non minacciante, un luogo in cui ognuno di noi è totale padrone di sé stesso, vive nella libertà e nel mistero, da solo o in compagnia di qualcuno, è la matrice della produzione della mente umana, della cultura e dell'arte.
Le fotografie di Cattani ci permettono di vedere, sentire il “segno” del sogno, il segno della vita più profonda negli oggetti preziosi ai bambini, quindi preziosi a ognuno di noi. GRAZIE
“L'eternità è un bambino che gioca, muovendo i pezzi sulla scacchiera : di un fanciullo è il regno“ - Eraclito
Bruno Cattani incontra i messaggeri dell’invisibile: intervista al fotografo
Bruno Cattani (Reggio Emilia, 1964) scatta fotografie dal 1982. Tre anni dopo, diventa fotogiornalista per il gruppo di Repubblica. La sua indagine artistica è tutta incentrata sul tema della memoria, analizzato sotto vari aspetti. In questa intervista, Cattani racconta del suo ultimo progetto, Voodoo: per tre settimane ha viaggiato tra Togo e Benin senza sosta, visitando un gran numero di gruppi tribali autoctoni per documentarne le tradizioni culturali e religiose.
Sì, si differenzia dalle altre anche se il fattore comune che lega tutto il mio lavoro è la memoria. In tutti i miei lavori il filo conduttore è quello della memoria. In questo caso, mi sono appassionato all’Africa e al mondo, avendo amici in loco che da molto tempo mi raccontavano di questo aspetto rituale. Il fatto di andare a esplorare le radici di dove è nato il Voodoo fa parte del mio lavoro sulla memoria. Infatti, se tu chiedi a una persona del Togo, del Benin o addirittura di Cuba, da quando esiste il Voodoo lui/lei, chiunque sia, ti risponderà “da quando è nato il mondo!”, per sottolineare quanto questa tradizione sia antica e affascinante il viaggio che ha fatto. Ti ho menzionato Cuba perché il compagno della mia assistente è cubano e la nonna praticava il Voodoo. In Africa, invece, ho degli amici che hanno delle scuole comunitarie per bambini e il mio contatto è partito tutto da lì. Da anni ero affascinato dal Voodoo romanzato da Hollywood. Avevo fatto alcune ricerche e poi ho conosciuto dei contatti online e sono partito per fare questa esperienza. Mi affascinava e continua ad affascinarmi. Purtroppo, sono rimasto bloccato causa virus, ma dovevo tornare già a gennaio dell’anno scorso.
Circa tre settimane, tra il Togo e il Benin. Avrei voluto continuare e voglio tutt’ora farlo, continuare il lavoro perché ho scoperto un mondo. Come ti stavo dicendo, nell’immaginario occidentale il Voodoo evoca una fascinazione tribale dai riti ancestrali che intriga e spaventa al contempo. La ricerca di un’Africa autentica e densa ancora delle sue origini primordiali mi ha portato a ricercare le tracce della religione più antica della Terra, in Togo e Benin, due stati poco conosciuti dal turismo paesaggistico e naturalistico ma ricchi di gruppi tribali che conservano ancora l’eredità dei loro antenati. Secondo i togolesi il Voodoo ha origine insieme alla Creazione e accompagna l’evoluzione dell’uomo sin dalle sue origini, per l’esattezza si sviluppa lungo il fiume Mono, il confine naturale tra Togo e Benin, e si basa sulla venerazione della natura e degli antenati credendo fermamente nella coesistenza tra i vivi e i morti.
Il mondo dei morti è sovrapposto a quello dei vivi ed è possibile accedervi per mezzo di spiriti, maschere, feticci, rituali e intermediari di vario tipo che costituiscono il legame con la divinità. Il Voodoo può quindi essere condensato in un messaggero dell’invisibile per mezzo del quale l’uomo può mettersi in contatto con Dio, Mahou, e le sue innumerevoli divinità, o Voodoos quali la terra, l’acqua, la giustizia, la guarigione e molti altri. I Voodoos sono spiriti creati da Dio con il compito di prendersi cura delle vicissitudini degli esseri umani, ognuno interviene per una particolare sfera dell’esperienza umana grazie all’intercessione dei sacerdoti accompagnati dai loro specifici rituali collettivi. In seguito, ha viaggiato nel mondo ed è stato romanzato da Hollywood e dai libri occidentali, ma per loro è una religione come tutte le altre, con varie sfaccettature e vari utilizzi.
Solo in Togo ci sono trenta etnie, e ogni etnia ha i suoi vari modi di utilizzarlo. A Ouidah, in Benin, è stata eretta la “Porta del non ritorno”, monumento che ricorda da dove sono partiti 40 milioni di schiavi. Questi ultimi hanno portato questa religione in giro per il mondo.
Il Voodoo fa quindi parte dell’orizzonte culturale delle tribù, più di quello religioso?
Tribale e religioso spesso in Africa, come anche in altri luoghi, si mischiano e l’uno modella l’altro. Sicuramente ciò che le persone che praticano il Voodoo mi hanno detto è che il Voodoo è una religione e come tale desidera e si prodiga per il miglioramento della società dove si sviluppa. Alcuni individui hanno il dono della trance attraverso la quale gli spiriti possono rivelarsi ed esprimersi e sono capaci di predire il futuro. Molti stati di trance o molte maschere, come le Ghelede, hanno funzioni educative e promuovono atteggiamenti morali. Così come alcuni feticci sono in grado di trasferire dolorose punizioni a chi si è comportato male o ha agito scorrettamente.
Tutte le religioni portano con sé insegnamenti e principi volti a migliorare le condizioni degli esseri umani in un particolare luogo e tempo favorendo la nascita delle civiltà. L’islam o il cristianesimo insieme a tutti gli scritti sacri delle tradizioni religiose sono ricchi di consigli e indicazioni di natura spirituale e anche materiale, ad esempio regole alimentari per salvaguardare il benessere delle persone. Così, in Togo e Benin ho visto delle religioni estremamente vive: sono tantissime le confessioni religiose e i gruppi di matrice prevalentemente cristiana e Voodoo ma anche mussulmana. Ho scoperto un mondo veramente affascinante, oltre ai luoghi.
Sì, non in quelle zone però.
Quindi ti sei interessato alle zone del Togo e del Benin anche perché avevi amici che conoscevano la zona?
Sì, conosco una famiglia che ha delle scuole per bambini, fino alle medie. Sono una specie di Onlus. Partendo da loro, ho preso contatti con altri, perché in quelle zone non puoi girare da solo.
Sei stato accompagnato a mano a mano?
Ho trovato un tour operator attraverso l’agenzia TransAfrica, molto efficienti e con ottime guide. Organizzano viaggi per appassionati in luoghi africani sperduti. La cosa bella, e anche fondamentale, è che hanno dei contatti all’interno dei villaggi: per arrivare a fotografare queste maschere, devi conoscere il sindaco, il sindaco deve andare dal sacerdote, il sacerdote deve evocare lo spirito che viene incarnato da una persona. C’è un meccanismo abbastanza complicato di equilibri umani.
Hai viaggiato in macchina? Quanto ti trattenevi all’interno di un villaggio mediamente?
Sì, con fuori strada o pullmini. Riuscivo a visitare più tribù al giorno. Anche se i km tra un villaggio e l’altro sono pochi, le strade sono inesistenti. C’è un’unica strada asfaltata che costeggia il mare, il resto delle strade sono sterrate: se il giorno prima è piovuto, sai che ci saranno delle voragini enormi che ti impediranno di viaggiare. Muoversi è un problema. Ma nella stessa Lomé, capitale del Togo, a parte una strada principale, le altre sono in terra battuta.
Vi ospitavano loro nelle loro case?
Un paio di volte sì, ma il resto del tempo siamo stati in queste specie di hotel. Ricordo che in uno di questi il bagno del ristorante era un buco nel pavimento nel mezzo della stanza. La prima volta che l’ho visto sono tornato alla reception per chiedere dove fosse il bagno e… era proprio quello.
Con che macchina hai scattato?
Ho scattato con una Canon, brand che devo ringraziare perché mi ha dato in uso delle fotocamere per il viaggio. Collaborando con loro ho questa fortuna. Queste foto le ho scattate con la Canon R. Non amo molto post produrre, giusto un minimo di colore per avere un’uniformità nel lavoro, ma non stravolgo mai la fotografia.
Il tuo progetto Voodoo è tutto autofinanziato?
Assolutamente sì. Speriamo che l’immediato futuro sia florido. Alcune delle fotografie della serie sono state presentate a novembre del 2019 ad AKAA, mostra d’arte africana fatta a novembre a Parigi in concomitanza di Paris Photo e ho avuto un buon successo. Le fotografie sarebbero dovute venire a Milano al MIA Photo Fair nei mesi a seguire, ma poi è saltato tutto. Il MIA è stato spostato a ottobre di quest’anno quindi speriamo di portare le foto a Milano con la galleria Vision Quest di Genova.
Non è stato un problema fotografare le maschere “in azione”? Non va contro il credo Voodoo?
Non dimenticherò mai l’emozione che ho provato la prima volta che ho visto una maschera Egun. Eravamo in un piccolo villaggio nel cuore del Benin, il caldo umido era asfissiante, l’eccitazione e la curiosità mi avevano creato una certa ansia. Ad un tratto, una figura colorata e scintillante è apparsa illuminata da una luce potente come solo il sole africano sa essere. È stato veramente difficile concentrarmi e cominciare a scattare, tanto era il fascino che ho subito da queste maschere rituali.
Secondo la credenza Voodoo queste maschere sono animate dagli spiriti degli antenati che grazie a questi corpi transitori possono comunicare con le loro famiglie dispensando consigli e guida. Io da buon fotografo, maniaco dell’estetica, mi sono avvicinato per sistemare un lembo del vestito e mi è stato gentilmente ricordato che gli spiriti non si toccano: può essere fatale!
Tu hai visto la foto della maschera Egun alla Galleria Valeria Bella di Milano ma ce ne sono tantissime altre. Per esempio, c’è una città in Togo, che è uno dei posti in cui voglio assolutamente tornare e fermarmi qualche giorno, in cui si professa il Cristianesimo Celeste (non si professa solo in quella zona, ma anche in Benin e in una parte dell’Africa). Immaginati una palude: il villaggio è costruito su delle palafitte, antichissime, che servì per sfuggire alla tratta degli schiavi; è in piedi da circa 200 anni. La tribù vive sulle palafitte, ci vuole mezz’ora di barca per arrivarci. Arrivi in questo posto e ti trovi centinaia di persone vestite con una tunica bianca e dei cappelli che sembrano quelli da chef e la domanda che sorge spontanea è “Ma dove sono finito? Mi prendono in giro?”. Avevo già visto praticanti del Cristianesimo Celeste a Lomé: credono in Cristo ma anche nel collegamento della natura con Dio, per cui venerano il sole, oggetti che rappresentano il sole, l’acqua e altri elementi della natura. Nel villaggio di cui ti parlavo vivono in mezzo alla natura, una natura che li ha salvati dalla tratta degli schiavi. Oltre a tutto ciò, questa tribù venera una serie di feticci, tra cui alcuni antichissimi. Sfortunatamente, in alcune di queste tribù questi feticci sono stati rubati e sostituiti, e oggi li trovi in alcune gallerie Americane o europee che trattano arte primitiva. Sono dei feticci che sono stati rubati dall’Africa e alcuni sono davvero antichi, parlo di centinaia di anni. Questa è una delle centinaia di storie.
Pensando anche alle Esposizioni Universali dell’inizio del Novecento e l’influenza che l’arte primitiva ha avuto su vari artisti, penso a Modigliani ma anche Picasso. Recentemente ho anche visto la ricostruzione dell’installazione African Voodoo del 2011 di Enzo Mari alla Triennale di Milano. Conoscevi già questi artisti e i loro interessi per l’arte e le credenze africane?
Non sono di certo il primo a interessarmi a questo tipo di arte e religione, però ognuno di noi dà qualcosa di sé. In più, io vengo da vent’anni di fotogiornalismo per il gruppo di Repubblica. Ora mi dedico più alla comunicazione aziendale, però ho un passato da fotoreporter. Parallelamente all’attività professionale, ho sempre portato avanti quella artistica. Ho cominciato a scattare affascinato dai luoghi dell’arte, rimanendo sul discorso della memoria. Ho avuto i primi incarichi in Francia, dal Louvre, dall’Ecole des Beaux Arts di Parigi, dal Musée Rodin, per indagare il museo in quanto contenitore d’arte e di memoria, e poi sulla statuaria e così via. Ho sempre avuto due attività parallele.
Penso che, in un certo senso, il tuo desiderio di voler documentare il Voodoo africano, sia il tuo modo per costruire un piccolo museo che riunisca maschere e rituali.
E anche tradizioni e memorie. Infatti, come hai visto non presento solo la foto pura, semplice, ma con un tessuto africano. Anche il tessuto, che poi negli anni è stato stravolto dalla moda, ha una tradizione e una memoria storica. Ogni etnia ha un determinato motivo che significa una cosa: alcune donne indossano dei vestiti fiorati perché è un modo di esprimere determinate cose, e così via. La moda ha un po’ cambiato questi significati ma per loro è anche questo, la tradizione della loro etnia e del loro popolo. Per questo non ho voluto banalizzare con un semplice passe-partout, ma aggiungere il tessuto. Infatti, prima di tornare, ho fatto ampiamente scorta di tessuti. Mi si è aperto un mondo e ancora quando ero lì ho maturato il pensiero di sovrapporre le fotografie ai tessuti.
Come hanno reagito le tribù vedendoti e vedendo la tua fotocamera? Come comunicavi con loro, sempre attraverso il tour operator o sei riuscito a interfacciarti in modo autonomo?
Loro continuano a parlare francese quindi comunicavamo attraverso quella lingua. Risentono ancora molto dell’influenza della Francia: per esempio, il Togo è una repubblica ma nel porto di Lomé c’è ancora la porta aerei francese, quindi possiamo dire che l’influenza francese è ancora molto forte. Nei villaggi più vicini alle città, parlavo francese. Spostandomi all’interno degli stati è stata necessaria la guida, perché ogni etnia ha il suo dialetto. Ma quando non ci si capisce verbalmente, parli con il sorriso. Ho trovato popolazioni accoglienti: non hanno niente, ti danno tutto. Dal punto di vista umano, è stata un’esperienza straordinaria. Mi sono trovato a bere della grappa di cactus con un capovillaggio, che parlava solo il suo dialetto. Io parlavo un po’ francese e un po’ italiano. Eppure, ci siamo capiti perfettamente.
Gli adulti dei villaggi sono abituati a vedere occasionalmente dei bianchi. Per alcuni, il bianco non è ben visto, per questo è meglio farsi accompagnare da qualcuno del posto che spieghi il motivo per cui sei lì. Il bianco non è ben visto: il colonialismo non ha lasciato affatto un buon ricordo. Ma quando il tour operator parlava con loro, dicendo che avrei voluto documentare la loro cultura e il loro mondo, per far capire alla gente che il Voodoo non è solo la bambolina con gli spilloni, a quel punto il problema era venire via dal villaggio. Il problema era sganciarsi da quelle tribù incredibili: per questo voglio tornarci e finire il lavoro con calma. Ma pensa che i bambini di tre o quattro anni, quando arrivano “les blancs”, come ci chiamano loro, si fermano a guardarti la pelle. Soprattutto nella zona del Togo e Benin, che non è turistica – a parte Lomé e il suo porto, l’unico dell’Africa in cui possono entrare navi container e che i francesi hanno in uso gratuito per altri trent’anni avendolo costruito – non è molto usuale vedere dei bianchi. Nei territori interni, dove ci sono le etnie a cui ho fatto visita, o vai perché sei appassionato di Voodoo oppure non hai motivo di addentrarti in quelle zone. C’è poco turismo, la zona è sempre stata sfruttata e le tribù vivono di agricoltura, allevamenti di gamberetti perché ci sono molti canali, e di pesca.
Sono fotografie uniche, perché ogni stampa ha sotto un tessuto diverso, giusto?
Sì, è un’opera unica. Gli scampoli di tessuto che ho sono limitati, quindi cambiano. Ho cercato di acquistarli nei vari posti che ho visitato. Diventa quindi un pezzo unico, perché il taglio del tessuto, seppur anche con la stessa fantasia, non sarà mai uguale all’altro. La cosa bella di questo lavoro è l’unicità del pezzo.
I soggetti che fotografi sono spesso, o forse quasi sempre, in posa. Anche nei ritratti della popolazione e dei bambini.
Esatto. Io volevo la persona. Non è un reportage, io volevo un ritratto. Volevo la persona, il suo atteggiamento, che guardasse in macchina. Volevo che ci fosse la persona per quello che rappresentava, non volevo una persona in movimento, che corresse o si muovesse. Doveva essere un ritratto, per quello che era e faceva. Non ho mai fotografato dei riti, sebbene li abbia visti, perché sarebbe diventato un reportage del rito. Io volevo l’individuo, la persona, per questo ho un po’ “staccato” le maschere dal rito. Non volevo il pollo sgozzato, non mi interessava. Volevo la persona per quello che rappresentava, assieme alla sua storia e alla sua cultura.
Quindi non hai visto il Festival Voodoo che ha luogo annualmente a gennaio?
No, anche per questo vorrei tornare. Tuttavia, mi è stato detto che sta diventando molto commerciale. Sarei voluto tornare in quel periodo per vedere il festival ma anche tornare negli altri posti. Durante il festival si riuniscono quasi tutte le etnie e per una settimana sono in questo posto. Ognuna ha una specie di quartiere, per cui in quell’occasione avrei avuto la possibilità di trovare tante tribù nello stesso luogo. Il festival non mi interessa, ma sarebbe stato bello per realizzare molti ritratti. È diventata una cosa anche molto politica, ci va lo stesso presidente della Repubblica e i politici che vogliono essere eletti. Volevo andare in concomitanza al festival ma solo per sfruttare il periodo e muovermi per tornare nei posti che ho visto. Per esempio, nel villaggio di palafitte di cui ti ho parlato vorrei rimanere vari giorni, perché devi entrare e immergerti nel loro mondo.
Dedicare una sola giornata a ogni etnia è troppo poco. Il bello è anche fermarti con loro, mangiare con loro, vivere la tribù. È un altro mondo e un’esperienza di vita stupenda, oltre alla parte fotografica, per cui riesci a fare le cose con più calma e criterio. Per esempio, a Lomé ho fatto un lavoro parallelo a questo titolato Voodoo, nelle scuole comunitarie. Un giorno a settimana, i bambini si vestono con i loro costumi tradizionali, che appartengono alla loro tribù, e qui torna il discorso del tessuto. Ogni bambino ha il suo costume che corrisponde ai motivi della loro etnia, sono molto legati alla tradizione e la tramandano da moltissimo tempo. Anche nella scuola stessa c’è il giorno della tradizione, non la vogliono perdere. In quell’occasione, ho messo un fondale di ciniglia rossa e ho ritratto questi bambini staccandoli dal contesto. Ho chiesto loro di portare il loro giocattolo del cuore. È saltata fuori una cosa bellissima: chi ha portato un robot, chi un pianoforte, chi dei giocattoli fatti in casa. Vedi il loro mondo attraverso i loro giocattoli. Per questo bisogna fare le cose con calma: non voglio essere il turista/fotoreporter che arriva, ruba due foto e torna a casa. Per me è importante immergersi nella loro cultura e nel loro mondo.
C’è una fotografia, o più di una, a cui tu sei particolarmente affezionato per la storia che c’è dietro?
Noi la chiamiamo affezionatamente “Chewbecca”. Quando è uscita la maschera per farsi fotografare, stavo trattenendo le risate, perché sarebbe stata una mancanza di rispetto. Però sei in spiaggia e ti trovi uno così, mi è subito venuto in mente il mondo di guerre stellari.
Sono rappresentazioni di storie. In Africa si dipingono i muri per rappresentare le storie delle tribù relative al Voodoo o al mondo tribale in generale. Le pitture raccontano come lo spirito è intervenuto e ha compiuto certe azioni, oppure di come si è incarnato in un animale e ha fatto qualcos’altro. Nel villaggio in cui ho scattato questa fotografia tenevano un coccodrillo vivo dentro a un pozzo. Per loro quel coccodrillo era il collegamento con lo spirito. Le tribù usano il mondo animale, assieme all’acqua, all’aria e agli altri elementi, per parlare con gli spiriti.
Le pitture murali fanno parte del rito?
No, raccontano le storie delle maschere. Sono rappresentazioni di quello che fanno. Le scritte raccontano la storia. Un giorno sono stato in questo lago in mezzo alla foresta, in cui si racconta di un europeo che si è immerso nel lago e ne è uscito il giorno dopo perché aveva incontrato dentro al lago lo spirito. Tutti questi racconti sono tramandati da generazioni, non è possibile che una persona rimanga sott’acqua un giorno, ma per loro non sono affatto leggende.
E la foto in cui si vedono due bambini di cui uno steso sopra allo scheletro di un animale?
Per connettersi con gli spiriti, le tribù hanno bisogno di animali e oggetti. Nei paesi si trova spesso quindi il mercato del Voodoo. Gli scheletri e i piccoli idoli che vedi nella foto servono, tra le altre cose, per mettere in atto il rito. A Lomé c’è questo mercato, con una cinquantina di bancarelle, dove vendono solo ed esclusivamente animali e oggetti per fare riti Voodoo. Se stai cercando una testa di scimmia, lì la trovi, assieme a una grande quantità di uccelli morti.
Le conoscenze in merito ai riti e alle tradizioni si tramandano oralmente, di padre in figlio. Un’altra foto che ho fatto ritrae padre e figlio con alle spalle dei quadri appesi: sono cinque generazioni della famiglia attraverso cui racconti e riti sono stati tramandati.
E considera che fino a 40 anni fa permettevano ancora riti umani. La problematica dello schiavismo e colonialismo ha lasciato pesanti segni, anche perché non erano i portoghesi che andavano nell’entroterra: loro davano le armi alla tribù più forte che andava a combatterne un’altra. Anche perché fisicamente, un portoghese che arrivava in quelle zone, stremato dal viaggio e magrolino, non poteva sostenere il paragone con le tribù africane, i cui uomini sono possenti e muscolosi. Combattevano tra loro, e c’erano anche i sacrifici umani. Diciamo le persone non avevano molto valore, sacrificavano anche bambini. Questo è agghiacciante, soprattutto quando arrivi in questi posti e pensi che lì sotto è sepolto chissà cosa e chissà chi.
Come anche il discorso dei segni sulla pelle, le cicatrici che si procurano, penso sia altrettanto d’impatto.
Quella è una delle tante etnie. La vita quotidiana di queste popolazioni è profondamente intrisa di gesti, amuleti, azioni, danze, sacrifici e rituali che richiamano il loro legame con il Voodoo. La loro pelle è segnata dall’appartenenza tribale, i loro indumenti raffigurano simboli e codici religiosi, le loro case sono protette da statue e feticci, la loro vita comunitaria ruota attorno ai rituali, la loro salute fisica dipende dai rimedi che i sacerdoti indicano loro e il timore verso ciò che è giusto o sbagliato guida le loro azioni.
Fin da piccoli, la loro pelle viene incisa col coltello come parte del rito. Tra gli altri, ho fotografato una donna con delle cicatrici sul viso, e un bambino con tutta la schiena ricoperta di queste incisioni che formavano un disegno. Il bambino era stato prescelto come futuro sacerdote, per questo era stato inciso fin da piccolo e nel futuro potrà fare una serie di riti. Ho un amico appassionato ed esperto che vive in quelle zone con la famiglia e anche lui mi dice che è veramente difficile ricordare e conoscere ogni singolo rito, essendocene talmente tanti. All’interno dello stesso villaggio – quello del coccodrillo, in Benin – spostandosi di poche case, i riti differiscono: lì, gli abitanti di una delle due parti del villaggio rendevano omaggio a quella persona che nelle foto vedi con la corona di conchiglie, per farti capere quanti riti ci sono.
Quando arrivavi nei villaggi come funzionava? La tua guida proponeva alle persone competenti di mettere in atto un rito?
Come ti ho detto, non mi interessava fotografare i riti in sé. Ma comunque dovevo aspettare che si preparassero. Devi rispettare i loro tempi, per questo ci vuole del tempo. Non puoi dire “Sì però facciamo veloce che devo andare”. Noi non siamo abituati a questo: lì c’è il tempo. Se per fare qualcosa ci vuole tempo, lì il mondo si ferma e prende i ritmi propri di quella tribù. Tu non puoi velocizzare il loro mondo. Tu arrivi nel villaggio e vieni presentato al sindaco, che ti porta dal sacerdote, che convoca lo spirito. La persona che incarna lo spirito arriva senza farsi vedere, è impossibile riconoscerlo: una delle più belle foto che rappresenta il lavoro è quella di una persona con un velo che le copre il viso. Nessuno sa chi è, nemmeno i membri della tribù stessa. Lui arriva con il velo già indosso, accompagnato da una persona, e poi si mette la maschera. C’è tutta questa ritualità che non puoi velocizzare o cambiare. I loro ritmi di vita sono questi e tu li devi rispettare. Trovo questo molto bello, perché noi non siamo più abituati. In Africa riprendi coscienza del tempo, tutto è dilatato, non c’è elettricità, solo qualche piccolo pannello solare. Eppure, un’altra cosa che mi ha sorpreso è che nei villaggi, per quanto poveri e piccoli, ci sono almeno quattro o cinque parrucchieri. Mai visti così tanti parrucchieri in vita mia, e per di più in posti in cui non c’è niente. Questa magari potrebbe essere un’idea per la mia prossima serie quando tornerò in Africa… ma sicuramente vorrò concentrarmi sulla religione, con tutte le sue sfaccettature.